di Alberto Guariso e Anna Baracchi
Il contributo richiesto dalla normativa italiana è “sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva ed è atto a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti da quest’ultima”.
Con sentenza del 2 settembre 2015 la Corte di Giustizia ha dichiarato incompatibile con la direttiva 2003/109 l’art. 5 comma 2 ter e l’art 14 bis del Testo Unico sull’Immigrazione 286/98 con il quale si impone ai cittadini di paesi terzi di pagare un contributo variabile tra 80 e 200 € per il rilascio o il rinnovo di un permesso di soggiorno.
La questione pregiudiziale è stata sollevata dal Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio nel corso di un procedimento promosso da CGIL e INCA volto a ottenere l’annullamento del decreto Ministero dell’Interno e Ministero dell’Economia e delle Finanze del 6 ottobre 2011 ) .
Introdotto nel 2009, il contributo per il rinnovo o il rilascio del permesso di soggiorno era stato fissato “tra un minimo di 80 e un massimo di 200 euro” : il decreto ministeriale sopracitato aveva articolato gli importi, stabilendo 80 euro per i permessi di soggiorno semestrali e poi somme crescenti fino a 200 euro per il permesso di soggiorno di lungo periodo.
Il Giudice del rinvio aveva rilevato che la norma di legge istitutiva del contributo determinava una ingiustificata sproporzione tra il costo per il rilascio della carta di identità nazionale – circa a 10 € – e il costo del rilascio del permesso di soggiorno. Ritenendo che tale sproporzione determinasse un contrasto tra la normativa comunitaria e quella nazionale che non potesse essere risolto con la disapplicazione della norma nazionale contrastante, ha ritenuto necessario sollevare una questione pregiudiziale di fronte alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Quest’ultima si era già pronunciata sulla materia in relazione a una disposizione dei Paesi Bassi, concludendo per l’illegittimità della norma nazionale, ove la sproporzione tra importo pagato per il documento nazionale e l’ importo pagato per il permesso di soggiorno era 1 a 7, quindi già inferiore a quella italiana (cfr. C- 508/10 Commissione/Paesi bassi – e commento ASGI).
Con la sentenza del 2 settembre 2015 la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha affermato che, sebbene gli Stati membri godano di un margine di discrezionalità nella determinazione di importi da pagare in occasione del rilascio del titolo di soggiorno, tale discrezionalità deve, tuttavia, essere esercitata nel rispetto del principio di proporzionalità al fine di non pregiudicare l’effetto utile della direttiva 2003/109, il cui scopo principale è quello di consentire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri (ma oggi si potrebbe probabilmente dire lo stesso per la direttiva 2011/98 e per i titolari del permesso unico lavoro).
Afferma, infatti la Corte che in “osservanza del principio di proporzionalità, il livello cui sono fissati detti contributi non deve avere né per scopo, né per effetto di creare un ostacolo al conseguimento dello status di soggiornante di lungo periodo”.
D’altra parte un livello così elevato del contributo non potrebbe trovare giustificazione – come invece pretendeva il Governo Italiano – in ipotetici costi di istruttoria perché, rileva la Corte, lo stesso art. 14 bis TUI prevede che “la metà del gettito prodotto dalla riscossione del contributo è destinata a finanziare le spese connesse al rimpatrio dei cittadini dei Paesi terzi in posizione irregolare” : il che, appunto, esclude che l’importo imposto agli stranieri costituisca il corrispettivo di specifici costi.
La Corte ha, pertanto, concluso che il contributo richiesto dalla normativa italiana è “sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva ed è atto a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti da quest’ultima”.
La sentenza lascia ora aperto un problema interpretativo e uno applicativo.
Sotto il primo aspetto, va considerato che la questione pregiudiziale era riferita alla compatibilità della tassazione con la direttiva 2003/109 : si potrebbe concludere che l’unica incompatibilità sancita dalla Corte riguarda il pagamento dei 200 euro per il rilascio del permesso di lungo periodo.
Tuttavia la norma rispetto alla quale il Giudice aveva sollevato la questione pregiudiziale è una norma unitaria (il citato art. 5, comma 2-ter TUI) che stabilisce, senza operare le distinzioni poi operate dal DM del 2011, soltanto il livello minimo e massimo del contributo.
La Corte ha sancito l’incompatibilità con la direttiva della norma nel suo insieme, ivi compreso proprio il livello minimo, anche se quest’ultimo riguarda solo la richiesta dei permessi di soggiorno brevi.
Ne consegue che anche l’importo di 80 euro (per quanto non direttamente riferibile ai lungosoggiornanti) è a questo punto sproporzionato e dunque illegittimo rispetto ai principi fissati dalla Corte di Giustizia Europea. Il Parlamento dovrà quindi cancellare la norma per adeguare la nostra normativa al diritto comunitario e rideterminare l’importo in una misura che sia rispettosa del principio di proporzionalità, certamente inferiore agli 80 euro, sia per i permessi di soggiorno ordinari, sia per i lungosoggiornanti.
E per le somme già pagate in violazione della norma comunitaria?
La direttiva, come interpretata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, non fissa l’importo massimo da pagare e quindi, proprio per questa sua indeterminatezza, non sarebbe invocabile direttamente nei confronti dell’Amministrazione finanziaria o davanti a un giudice per ottenere il rimborso parziale di quanto pagato.
Tuttavia la violazione della direttiva è ormai definitivamente accertata e, dunque, il cittadino straniero che ha pagato un importo “sproporzionato” può convenire in giudizio lo Stato italiano (con l’azione ordinaria o con l’azione antidiscriminatoria) per ottenere il risarcimento del danno per mancato adeguamento al diritto comunitario. Sarà il Giudice a stabilire – sulla base dei principi fissati dalla Corte – quale avrebbe dovuto essere l’importo “proporzionato”, con conseguente riconoscimento allo straniero, a titolo di risarcimento del danno per violazione delle norme comunitarie, dell’importo eccedente pagato.
Contributo a cura di Alberto Guariso e Anna Baracchi nell’ambito del progetto finanziato dalla Fondazione Italiana Charlemagne ONLUS