Corte di Cassazione, sezione I Penale, sentenza 28 febbraio – 27 marzo 2014, n. 14510

Presidente Giordano – Relatore Caprioglio

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 12.10.2013 il Tribunale di Catania, investito ai sensi dell’art. 309 cod.proc.pen., annullava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico di H.H. emessa dal gip del Tribunale di Catania il 19.9.2013 per i reati di cui agli artt. 416 cod.pen. e 12 d.lgs. 286/1998 ed ordinava la liberazione del prevenuto. Il Tribunale, dopo avere premesso che era emersa l’esistenza di un’associazione criminale operante in Libia, che aveva lo scopo di favorire per motivi di lucro l’ingresso illegale di cittadini extracomunitari in Italia, rilevava che era risultato che il prevenuto era stato coinvolto nel trasporto di clandestini che erano stati trasbordati da una motonave, che aveva compiuto la prima parte del viaggio, su un gommone del tutto inadeguato che era stato poi soccorso da una nave battente bandiera liberiana che aveva portato i passeggeri fino al porto di (omissis) . H. era stato indicato da due dei trasportati come colui che aveva comandato il gommone e, se da un lato si poteva dare per scontato che avesse operato in tal senso, non si poteva per ciò concludere che egli fosse legato in modo stabile al pericoloso gruppo criminale che gestiva l’immigrazione clandestina per motivi di lucro. Di qui la carenza di gravità indiziaria in ordine all’accusa di associazione a delinquere. Veniva peraltro poi rilevata la mancanza di giurisdizione, trattandosi di fatto commesso oltre il limite delle acque territoriali nazionali (di dodici miglia marine dalla costa), secondo quanto stabilito nell’art. 97 della convenzione di Montego Bay e dall’art. 19 della convenzione di Ginevra, entrambe ratificate dallo Stato italiano. Parimenti per il reato di cui all’art. 12 d.lgs. 286/1998 si riteneva trattarsi di condotta commessa in acque internazionali e maltesi, non potendosi ravvisare come consumato nel nostro Stato neppure un segmento della condotta illecita intesa in senso naturalistico, così da potere ritenere la giurisdizione italiana secondo il disposto dell’art. 6 cod.pen., essendosi esaurita in acque extraterritoriali ogni condotta ascrivibile all’indagato.
2. Avverso tale decisione interponeva ricorso per cassazione il Pm presso la Procura Distrettuale della Repubblica di Catania, per dedurre:
2.1 inosservanza, erronea applicazione dell’art. 416 cod.pen., manifesta illogicità della motivazione. Veniva sottolineato: che esisteva una associazione criminale, composta da libici, siriani e tunisini, che pianificava i trasporti dalla Libia all’Italia, dietro pagamento di oltre 3000 Euro per ciascun trasportato, disponendo di immobili sulla costa libica dove ospitare i migranti prima di farli imbarcare; che il viaggio si era svolto dapprima su una nave più grande con sei o sette persone di equipaggio, tra cui l’H. , e poi su un gommone guidato dal solo H. , che aveva navigato per diversi giorni con sedici persone a bordo fino a che un peschereccio tunisino non aveva dato loro viveri ed aveva chiamato una nave mercantile battente bandiera liberiana, che aveva portato i malcapitati a (…); che i migranti erano tutti siriani, mentre il solo H. era tunisino ed era stato indicato dai trasportati come colui a cui era stato affidato il governo del gommone; che seppure la condotta tenuta dall’indagato, così come emersa, fosse limitata ad un unico episodio, poteva ritenersi dimostrativa della sussistenza del vincolo associativo tra il predetto ed altri soggetti, rappresentati dai membri dell’intero equipaggio e di coloro che rimasero in (…) e che organizzarono l’esodo. La conduzione del natante minore da parte di soggetto che faceva parte dell’equipaggio anche dell’imbarcazione più grande, rappresentava uno dei tasselli di un’articolata struttura, posto che H. non si limitò a condurre un natante, ma si pose fin dall’inizio della traversata a bordo dell’imbarcazione principale, consapevole del ruolo che avrebbe dovuto giocare in un momento successivo, il che secondo il Pm ricorrente andava valutato come indicativo del contributo essenziale fornito, non già e non solo ad ogni singolo sbarco, ma alla più complessa organizzazione del viaggio in mare.
2.2 Inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 6 e 7 cod.pen., 20 cod.proc.pen.: una parte della condotta di favoreggiamento dell’immigrazione doveva ritenersi consumata in Italia considerato che i migranti erano stati lasciati senza viveri ed acqua su un gommone del tutto inadeguato a superare le difficoltà del mare, con l’evidente intento di sollecitare i soccorsi che erano stati offerti da un peschereccio tunisino che “stranamente” si era trovato in loco ed aveva guidato il gommone verso la costa siciliana, fino a che non era intervenuta la nave battente bandiera liberiana che aveva portato i migranti in (…). Tale successione di eventi stava a dimostrare che gli atti diretti a procurare l’ingresso in Italia dei clandestini posti in essere dall’indagato non si erano arrestati in acque internazionali, ma erano proseguiti fino al porto di (…), ovvero sino al conseguimento dell’obiettivo fin dall’inizio prefissato. Se vero è che la parte finale del viaggio fu compiuta per mezzo del mercantile liberiano, non poteva sottovalutarsi che l’intervento di soccorso fosse stato sapientemente e scientemente provocato, strumentalizzando l’obbligo di soccorso in mare, in forza della convenzione di Amburgo e della convenzione di Montego Bay, da quei soggetti che avevano lucrato su questi viaggi, mettendo in pericolo vite umane, onde favorire l’ingresso in (…) sotto lo scudo dei soccorritori. Veniva fatto rilevare che la situazione di concreto pericolo per la vita dei migranti a bordo del gommone era stata scientemente voluta anche dall’indagato e poteva certamente affermarsi che sussistevano i requisiti previsti dall’art. 54 c. 3 cod.pen, nel senso che i soccorritori si erano trovati esposti alla minaccia attuale e concreta, posta in essere da chi aveva determinato il fatto, che potesse verificarsi un danno grave alle persone, danno che non poteva essere scongiurato se non ponendo in essere la condotta prevista dall’art. 12 d.lgs. 286/1998. Veniva quindi opinato dal Pm ricorrente che per coloro che operarono il salvataggio la condotta di favoreggiamento era certamente scriminata ai sensi dell’art. 54 cod.pen., ma che a norma del e. 3 della norma citata si profilava nettamente la responsabilità degli organizzatori del traffico. Veniva aggiunto che se si volesse ritenere che la condotta illecita degli scafisti si sia fermata in alto mare, al momento del trasbordo sul gommone, si legittimerebbe una sostanziale loro impunità, con il che lo stato italiano si troverebbe da un lato a dover soccorrere in mare e dall’altro ad essere impossibilitato a perseguire e sanzionare chi tale stato di pericolo abbia provocato.
Secondo il Pm appellante si deve ritenere che anche una frazione del reato associativo in casi consimili si consuma in Italia, rientrando la condotta nella sfera di applicazione dell’art. 6 cod.pen; in ogni caso trattasi di associazione criminale transnazionale che rientra nell’art. 7 n. 5 cod.pen., in relazione all’art. 15 e. 2 lett. c), che rinvia all’art. 5 paragrafo 1 della convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata, sottoscritta a Palermo il 12/15.12.2000. Tale interpretazione secondo il Pm ricorrente risulta confermata dall’art. 3 L. 146/2006 che nel definire il reato transnazionale stabilisce che si abbia a considerare tale il reato qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato e sia commesso in uno stato ma abbia effetti sostanziali in altro stato.

Considerato in diritto

La risposta che questa Corte è chiamata a dare, prima di entrare nella valutazione del compendio probatorio in ordine ai reati contestati ad H.H. , è quella concernente il profilo della giurisdizione; si tratta di valutare se i casi quale quello in oggetto ricadano o meno nella giurisdizione italiana, tenuto conto della particolarità che li contraddistingue laddove la condotta illecita dispiegata dalla c.d. nave madre che salpi dalle coste dell’Africa con a bordo gli immigrati si esaurisca nelle acque extraterritoriali, mentre le condotte terminali dell’azione criminosa conducente alla realizzazione del risultato (sbarco dei clandestini sul nostro territorio) siano di fatto riportabili all’attività lecita di navi intervenute doverosamente a soccorso dei naufraghi.
Si deve preliminarmente rilevare, onde correttamente inquadrare giuridicamente la concatenazione degli atti integranti la condotta in contestazione, che nella gestione di questo squallido traffico di esseri umani è stato accertato, con alto margine di affidabilità, la serialità del coinvolgimento di una nave madre proveniente da paesi dell’area nord africana che mentre attraversa le acque internazionali viene affiancata da più piccole imbarcazioni, senza bandiera, cui viene rimessa, nella pianificazione complessiva, la realizzazione del risultato (sbarco sulle coste italiane) non prima che venga operato il trasbordo dei migranti e che venga lanciata la richiesta di aiuto, più che giustificata in ragione delle condizioni del natante e delle condizioni del mare. Tale procedura non può che apparire come il frutto di un accorto disegno, rivolto a preservare il natante principale ed il suo equipaggio da possibili attività di captazione investigativa ad opera delle forze dell’ordine dei paesi Europei, tenendolo al riparo dall’esercizio della giurisdizione nei paesi di approdo, con ciò aumentando in modo esponenziale il rischio fatto correre ai trasportati (in ragione dell’insicurezza dei mezzi navali utilizzati per affrontare un mare molto impegnativo, nella seconda parte del viaggio in acque territoriali), rischio opportunamente strumentalizzato, per provocare l’intervento dei servizi di soccorso in mare degli stati Europei costieri ed in particolare dell’Italia, in osservanza di una strategia criminale mirante a fare apparire lo sbarco come il risultato dell’ultimo segmento di attività, riconducibile all’opera dei soccorritori, scriminata dallo stato di necessità.
Sul punto è bene sottolineare che l’ultimo tratto della condotta altro non rappresenta che un tassello essenziale e pianificato di una concatenazione articolata di atti che non può essere interrotta o spezzata nella sua continuità, per la semplice ragione che l’intervento di soccorso in mare non è un fatto imprevedibile, che possa interrompere la serialità causale, ma è un fatto non solo previsto ma voluto e addirittura provocato. In buona sostanza, come anche gli ultimi accadimenti hanno consentito di accertare, la cinica azione di abbandono in acque extraterritoriali dei disperati è destinata proprio a produrre la situazione di necessità, atta a stimolare l’intervento ad adiuvandum che conduca all’approdo i clandestini e quindi al raggiungimento dell’obiettivo dell’associazione che mira ovviamente ad assicurare lo sbarco (il risultato), onde perpetuare la continuità dell’intrapresa e quindi la lucrosa fonte di guadagno. È bene non dimenticare che in tali evenienze l’intervento di soccorso è doveroso, ai sensi delle Convenzioni internazionali sul diritto del mare (Convenzione di Amburgo del 27.4.1979, ratificata con legge n.147/1989 e relativo regolamento D.P.R. 662/1984, ed art. 98 della Convenzione di Montego Bay), anche una volta avuto contezza dell’illiceità dell’immigrazione. L’azione di salvataggio dunque non può essere considerata isolatamente, rispetto alla condotta pregressa che volutamente determinò lo stato di necessità, proprio perché trattasi di condizione di pericolo causata volontariamente dai trafficanti, che si ricollega (ferma restando ovviamente la non punibilità dei soccorritori, obbligati ad intervenire) in diretta derivazione causale all’azione criminale di abbandonare in mare di uomini in attesa dei soccorsi, nella ragionevole speranza che siano condotti sulla sponda di terra agognata sotto lo scudo dell’azione di salvataggio.
La condotta dei trafficanti non può non essere valutata nella sua unitarietà, senza frammentazioni e si deve considerare mirata ad un risultato che viene raggiunto con la provocazione e lo sfruttamento di uno stato di necessità. La volontà di operare in tale senso anima i trafficanti fin dal momento in cui vengono abbandonate le coste africane in vista dell’approdo in terra siciliana, senza soluzione di continuità, ancorché l’ultimo tratto del viaggio sia apparentemente riportabile all’operazione di soccorso, di fatto artatamente stimolato a seguito della messa in condizione di grave pericolo dei soggetti, strumentalmente sfruttata. La condotta posta in essere in acque extraterritoriali si lega idealmente a quella da consumarsi in acque territoriali, dove l’azione dei soccorritori nella parte finale della concatenazione causale può definirsi l’azione di un autore mediato, costretto ad intervenire per scongiurare un male più grave (morte dei clandestini), che così operando di fatto viene a realizzare quel risultato (ingresso di clandestini nel nostro paese) che la previsione dell’art. 12 d.lgs. 286/1998 intende scongiurare. Il nesso di causalità non può dirsi interrotto dal fattore sopravvenuto (intervento dei soccorritori) inseritosi nel processo causale produttivo dell’evento poiché non si ha riguardo ad evento anomalo, imprevedibile o eccezionale, ma fattore messo in conto dai trafficanti per sfruttarlo a proprio favore e provocato.
Tale modus opinandi non contrasta con quanto è stato affermato in un risalente arresto di questa Corte ( Sez. I, 28.10.2003, n. 5583) in cui venne affermato che la rilevanza dell’evento agli effetti della legge penale e quindi dell’art. 6 cod.pen., presuppone che la consumazione del reato dipenda da quell’accadimento, naturalisticamente inteso, cosicché, quando invece è incriminata una condotta rivolta a realizzare un determinato risultato, l’illecito è con ciò perfetto e l’eventuale conseguimento dello scopo, una volta esauritasi la condotta, diviene indifferente, essendo la tutela anticipata al momento dell’azione. Il caso che diede luogo a questa pronuncia era diverso, poiché seppure sempre in tema di violazione dell’art. 12 d.lgs 286/1998, si aveva riguardo a trasferimento all’interno di autocarro imbarcato in Grecia su nave battente bandiera greca, diretta ad Ancona, di soggetti clandestini nascosti tra le arance che erano poi stati scoperti in mare aperto, in acque territoriali greche, durante il percorso di navigazione e che erano stati presi in consegna dal comandante della nave avente nazionalità greca, così profilandosi il difetto di giurisdizione per lo Stato italiano, data l’irrilevanza del fatto che il loro sbarco fosse avvenuto in Italia, essendosi già esaurita la condotta diretta a favorire l’immigrazione che è reato a consumazione anticipata. Veniva peraltro aggiunto, proprio per spiegare perché la condotta si considerava esaurita, che il risultato finale era da ricondurre non già allo stratagemma operato dal trasportatore, bensì alla autonoma decisione del comandante della nave di adottare le misure necessarie per apprestare soccorso efficace ai migranti che versavano in condizioni di totale deprivazione. La fattispecie oggetto del presente giudizio invece è connotata dal fatto che, come è stato detto, i migranti vengono collocati in mezzo al mare su mezzi navali senza alcuna bandiera, vengono lasciati in mezzo alle acque extraterritoriali e la condotta fino a questo momento non può ancora dirsi esaurita in vista del risultato che sarà conseguito, senza soluzione di continuità, con il previsto e voluto intervento del soccorritori che consentiranno ai malcapitati di concludere la traversata sotto lo scudo della scriminante in acque territoriali; scriminante dello stato di necessità provocato ad opera degli stessi trafficanti, che non può che essere imputato a coloro che lo abbiano volutamente determinato, secondo il principio causa causae est causa causati.
Ciò detto, questa Corte ritiene che possano essere affermati i seguenti principi. La giurisdizione dello stato italiano va riconosciuta, laddove in ipotesi di traffico di migranti dalle coste africane alla Sicilia, questi siano abbandonati in mare in acque extraterritoriali su natanti del tutto inadeguati, onde provocare l’intervento del soccorso in mare e far sì che i trasportati siano accompagnati nel tratto di acque territoriali dalle navi dei soccorritori, operanti sotto la copertura della scriminate dello stato di necessità, poiché l’azione di messa in grave pericolo per le persone, integrante lo stato di necessità, è direttamente riconducibile ai trafficanti per averlo provocato e si lega, senza soluzione di continuità, al primo segmento della condotta commessa in acque extraterritoriali, venendo così a ricadere nella previsione dell’art. 6 cod.pen. L’azione dei soccorritori (che di fatto consente ai migranti di giungere nel nostro territorio è da ritenere ai sensi dell’art. 54 comma 3 c.p., in termini di azione dell’autore mediato, operante in ossequio alle leggi del mare, in uno stato di necessità provocato e strumentalizzato dai trafficanti e quindi a loro del tutto riconducibile e quindi sanzionabile nel nostro Stato, ancorché materialmente questi abbiano operato solo in ambito extraterritoriale.
Quanto poi al profilo della giurisdizione dello stato italiano in relazione al reato di associazione a delinquere ravvisabile in capo ai trafficanti di migranti clandestini, operante sul territorio libico e su quello italiano, avente ad oggetto proprio l’organizzazione di trasporti di uomini sulla costa italiana in ispregio alle normativa vigente ed in particolare dell’art. 12 d.lgs. 286/1998, la giurisdizione italiana va ancora affermata, seppure sotto un’altra angolazione. Infatti, come correttamente argomentato dal Pm ricorrente, trattasi di associazione transnazionale, la cui attività ricade sotto la previsione dell’art. 7 n 5 cod.pen., in forza dell’art. 15 c. 2 lett. c), che rinvia all’art. 5 paragrafo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite, contro la criminalità organizzata transnazionale, sottoscritta a Palermo il 12-15.12.2000, ratificata dall’Italia con legge 146 del 2006. Si ha infatti riguardo ad associazione criminale organizzata in nord Africa, ma diretta a produrre effetti in Italia, per la commissione di reati in materia di immigrazione e quindi ricadente nella previsione – come detto – dell’art. 15 c. 2 lett. c) della suddetta Convenzione. L’art. 3 della I. 146/2006 del resto nel definire il “reato transnazionale” fa riferimento proprio al reato commesso da gruppo criminale organizzato che sia commesso in uno stato, ma che ne dispieghi gli effetti in un altro.
Tanto premesso ed affermata la giurisdizione del nostro Stato per entrambi i reati in contestazione, passando alla specifica posizione dell’H. , quanto al reato di cui all’art. 12 d.lgs. 286/1998 deve essere disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata, poiché lo stesso venne indicato da due soggetti siriani trasportati come colui che prese il timone del natante in acque extraterritoriali per la prosecuzione del viaggio, in attesa dei soccorritori, il che costituisce base inferenziale per ritenerlo plausibilmente non già un immigrato, ma il nocchiero del natante lasciato in balia delle onde, operante su incarico dell’associazione, rilevando il fatto che si trattava dell’unico tunisino fra i tanti disperati tutti di nazionalità siriana. Una volta affermata la giurisdizione, il Tribunale di Catania, anche alla luce di quanto è stato detto sulla ricaduta dei tratti illeciti dell’azione dei soccorritori su coloro che hanno provocato lo stato di necessità, dovrà esaminare la posizione dell’indagato sotto il profilo della valenza indiziaria del compendio offerto.
Il ricorso deve essere rigettato nel resto, considerato che la base indiziaria quanto al reato di associazione a delinquere è assolutamente inadeguata, non potendosi affatto escludere che l’H. sia stato cooptato solo per questa intrapresa dall’associazione senza che da detto incarico si possa desumere, a livello di gravità indiziaria, il suo collegamento con l’associazione criminale mancando qualsivoglia informazione sull’appartenenza del soggetto alla struttura criminale organizzatrice dei viaggi. Se certamente si può ipotizzare la sussistenza di un’organizzazione strutturata, diretta ad organizzare i viaggi di un numero sempre crescente di africani che vogliono lasciare il loro continente, nulla accredita la stabile appartenenza del tunisino H.H. a questo sodalizio criminale e la motivazione del giudice del riesame sul punto si sottrae quindi a censura in questa sede.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 12 d.lgs. 286/1998 e rinvia per nuovo esame al riguardo al Tribunale di Catania.
Rigetta nel resto il ricorso.