Il libro “Immigrazione e diritti violati. I lavoratori immigrati nell’agricoltura del Mezzogiorno” (a cura di Enrico Pugliese, edizioni Ediesse Roma, 2013, pp. 174, € 13) raccoglie i risultati di una ricerca condotta dalla Cooperativa sociale Dedalus e finanziata dalla Open Society Foundations sulle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori immigrati impiegati in agricoltura nelle regioni del Mezzogiorno.
La ricerca è stata svolta nel periodo compreso tra il marzo 2011 ed il maggio 2012 e si è concentrata in tre regioni: Puglia, Calabria e Campania.
La ricerca evidenzia il grave livello di sfruttamento lavorativo messo in atto nei confronti dei lavoratori immigrati in particolare in quelle situazioni di agricoltura intensiva ove si registrano picchi di fabbisogno di manodopera stagionale in taluni periodi ed in particolare in quello della raccolta dei prodotti. Il volume illustra il quadro dei diritti violati dei lavoratori immigrati, innanzitutto con riferimento alle condizioni retributive e di lavoro, ma anche alle condizioni di vita, con riferimento alla criticità delle condizioni alloggiative, di sicurezza e ai connessi rischi igienici e sanitari.
L’equipe di sociologi ed operatori impiegati nella ricerca, presentata alla Commissione diritti umani del Senato nel giugno 2012, evidenzia i fattori che rendono possibile questo fenomeno di strutturale sfruttamento dei braccianti stranieri, evidenziando come appaia di centrale importanza la condizione di isolamento degli immigrati resa possibile dal vuoto di iniziative delle istituzioni. Questo fa sì che i meccanismi regolativi del mercato del lavoro e di intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro vengano assai raramente svolti da ambiti istituzionali e sottoposti al controllo sociale operato dai sindacati quali il collocamento agricolo, ma al contrario da intermediari informali ed illegali quali i ‘caporali’, che assumono funzioni decisive di raccordo tra imprese agricole i braccianti stranieri, anche attraverso la loro crescente ‘etnicizzazione’ (i c.c. “caponeri”) e l’affermarsi di una scala di gerarchie. Questo con il risultato che i braccianti stranieri vengono ad essere sottoposti ad un controllo ‘complessivo’ che si estende non solo alla fase dell’attività lavoratriva, ma anche a quella del trasporto sul luogo di lavoro e dell’accesso a beni essenziali, con il risultato del verificarsi di ulteriori taglieggiamenti a salari già largamente inferiori a quelli minimi contrattuali e a condizioni di vita di estrema marginalità ove le uniche forme di solidarietà e convivenza sono spesso quelle di auto-aiuto che si creano all’interno delle comunità nei ‘ghetti’ e nelle baraccopoli. E’ proprio questa assenza di un ruolo regolativo a livello istituzionale e del conseguente ‘isolamento’ dei braccianti stranieri tanto nel mercato del lavoro quanto nelle condizioni sociali di accoglienza, che spiega come lo status dell’immigrato non costituisca generalmente il fattore decisivo nel determinare il diverso livello di sfruttamento, per cui a rimanere vittima di tali situazioni non sono soltanto immigrati irregolari o richiedenti asilo facilmente ricattabili per la loro impossibilità di sottoscrivere rapporti di impiego regolari, ma anche cittadini neocomunitari, come quelli rumeni. Ugualmente, in un contesto di diffusa illegalità ed informalità dei rapporti sociali, trovano scarse applicazioni pratiche le norme pur vigenti nell’ordinamento, che prevedono severe sanzioni penali per l’intermediazione illegale di manodopera (art. 603-bis c.p. introdotto dal D.L. 138/2011), così come la protezione sociale dei lavoratori immigrati sottoposti a gravi situazioni di sfruttamento lavorativo mediante il rilascio dell’apposito permesso di soggiorno a chi presenti denunce e cooperi con l’autorità giudiziaria (d.lgs. n. 109/2012).
I ricercatori inoltre evidenziano come tale fenomeno abbia conosciuto negli ultimi anni un ulteriore peggioramento in conseguenza della crisi economica che ha spinto molti immigrati che avevano trovato un inserimento lavorativo e sociale nelle industrie del Nord d’Italia a dover ripiegare sul lavoro agricolo nel Sud come unica possibilità per il reperimento di una fonte di reddito e di alloggio a basso costo. Il lavoro di ricerca illustra anche alcune buone prassi messe in atto in talune realtà locali, quali l’esperienza della cooperativa Equosud a Rosarno, le iniziative di sindacalizzazione che hanno accompagnato il primo sciopero dei braccianti stranieri a Nardò in Puglia, l’istituzione degli alberghi diffusi in Puglia, il rafforzamento di talune linee di trasporto locale pubblico per il raggiungimento autonomo dei luoghi di lavoro, i presidi sanitari offerti da organizzazioni no-profit in collaborazione con le Aziende Sanitarie Locali. Tuttavia, si tratta ancora di sforzi largamente insufficienti per segnare una svolta ed impedire che interi segmenti dell’agricoltura del Mezzogiorno si fondino in maniera strutturale sul lavoro sfruttato e su condizioni di vita inaccettabili dei braccianti stranieri.
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Info: Ediesse edizioni