Discriminatorio manifestare in pubblico la volontà di non assumere persone omosessuali

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La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza 11 dicembre 2014, ha confermato l’ ordinanza del Tribunale di Bergamo del 6 agosto 2014 con la quale l’avvocato Taormina era stato condannato per il carattere discriminatorio di alcune affermazioni rilasciate nel corso di un programma radio, considerate lesive nei confronti delle persone omosessuali.

L’azione, promossa dall’associazione Rete Lenford, ha condotto a due pronunce che – a prescindere dal fattore “orientamento sessuale” che veniva in considerazione in quella vicenda – sono di grande rilievo per tre aspetti cruciali del diritto antidiscriminatorio: quello della “discriminazione da scoraggiamento”; quello della legittimazione attiva nelle discriminazioni collettive e quello del risarcimento del danno non patrimoniale.

Sul primo punto la Corte d’Appello, confermando la pronuncia del giudice di primo grado, fa applicazione dei principi contenuti nelle sentenze CGE Feryn e Accept , riconoscendo che anche una mera dichiarazione con la quale si preannuncia l’intenzione di non assumere soggetti protetti dalla normativa antidiscriminazione, costituisce per se stessa discriminazione, indipendentemente dalla esistenza di un soggetto che lamenti la mancata assunzione e indipendentemente dal fatto che il discriminatore abbia effettivamente in corso delle assunzioni.

Sulla seconda questione la Corte – trattando una eccezione che non era stata sollevata in primo grado – ha dovuto interpretare l’art. 5 Dlgs 216/03 che, come noto, ha una formulazione diversa da quella della corrispondete norma del dlgs 215/03 e garantisce la legittimazione attiva alle “organizzazioni sindacali e alle associazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso”.

La Corte ha affermato che, al fine di poter promuovere un’azione antidiscriminatoria, non è necessario che l’associazione sia costituita – come voleva l’appellante – soltanto da soggetti portatori dell’interesse leso, ma è sufficiente che l’associazione abbia come scopo quello della tutela di tali interessi e che operi sul territorio nazionale a difesa dell’effettività del principio di non discriminazione in riferimento ad uno dei fattori protetti.

Infatti una lettura dell’art.5 del D.lgs. 216/2003 conforme alla direttiva 2000/78, di cui è attuazione, porta ad affermare che il concetto di associazioni “rappresentative” del diritto o dell’interesse leso non debba essere interpretato “nell’accezione più ristretta del termine, e cioè in quanto costituite dai portatori di un diritto individuale coincidente con quelle dell’associazione” ma che devono essere unicamente portatrici dell’interesse “collettivo” leso. Tale interpretazione lata della norma è imposta dai principi comunitari di leale cooperazione nonché dai canoni di interpretazione di effettività e equivalenza, codificati dalla sentenza Rewe, della Corte di Giustizia (sentenza 20.2.79, causa n 120/78).

La tesi rende ancora più ingiustificate le restrizioni contenute nell’art. 5 Dlgs 215/03 (ove la legittimazione ad agire passa, come noto, attraverso il “filtro” del decreto ministeriale) tanto più ove si consideri che il fattore religione, spesso continuo a quello etnia, ricade invece nell’ambito del dlgs 216/03; e a maggior ragione rende ingiustificate le restrizioni contenute nell’art. 44 TU immigrazione, ove la legittimazione attiva è riservata alle OOSS maggiormente rappresentative.

Infine sulla terza questione la Corte d’Appello ha confermato quanto deciso dal giudice di primo grado, riconoscendo il diritto al risarcimento del danno per l’associazione ricorrente sulla base di una corretta interpretazione delle direttive in materia di parità di trattamento e discriminazione che prevedono sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive.

L’art. 28 del d.lgs. 150/2011 al comma 5 dispone infatti che il giudice, con l’ordinanza che definisce il giudizio, possa condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti.

La norma prevede dunque due sanzioni diverse e non necessariamente alternative. Secondo la Corte infatti la sanzione della pubblicazione dell’ordinanza su un quotidiano di grande tiratura , non esclude la possibilità di condanna al risarcimento del danno non patrimoniale. Se infatti la pubblicazione assume una funzione dissuasiva, l’efficacia e la proporzionalità della sanzione sono meglio garantite riconoscendo che le associazioni rappresentative, in quanto rappresentanti degli interessi lesi e vittime di un pregiudizio non patrimoniale, possano avere diritto al risarcimento del danno.

Sulla scorta di tali decisioni è plausibile affermare che anche in altri casi le associazioni legittimate che agiscano in giudizio possano far valere il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale

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