La Camera approva una mozione sul reddito di cittadinanza

La Camera, approvando una mozione confusa e contraddittoria, invita il Governo ad avviarsi sulla strada della discriminazione, in palese contrasto con il diritto UE e con le esigenze di giustizia.

Si avvicina l’ora X per il reddito di cittadinanza che, in forme più o meno incisive, sembrerebbe dover prendere avvio già dal 2019. In previsione dei futuri passaggi parlamentari, la Camera, l’11 settembre scorso, ha votato a maggioranza una mozione in materia che merita di essere esaminata; non certo per la superficialità dei riferimenti giuridici, ma per le scelte di politica sociale che prefigura.

La mozione contrappone infatti il REI come frutto di una concezione di stato sociale minimo con compiti residuali, che fornirebbe “benefici appena sufficienti a garantire un livello minimo di risorse” e una (apprezzabile) concezione di stato sociale con compiti redistributivi e universali “volti a garantire alla generalità dei cittadini un tenore di vita adeguato, comunque commisurato anche a uno standard di povertà relativa”.

La conclusione più attesa, quella relativa alla soglia di reddito per accedere al beneficio, è poi scritta in modo assolutamente oscuro con un contorto riferimento alla soglia del  “rischio povertà” (che gli economisti determinano in un reddito inferiore al 60% del reddito medio); le roboanti premesse indicano che comunque si dovrebbe trattare di una prestazione tendenzialmente universale, finalizzata a garantire il reinserimento nel lavoro e “un tenore di vita adeguato” a una platea di cittadini molto più ampia di quella raggiunta dal REI (del quale, secondo i dati INPS, beneficerebbero nel 2018, dopo l’allargamento dei requisiti, circa 2.500.000 persone, quindi la metà circa delle persone in povertà assoluta ) tanto da essere esteso, dice espressamente la mozione, anche alle “classi medie”.

Ciò premesso, la mozione indossa poi la camicia verde e richiama espressamente la limitazione ai soli cittadini italiani (“volta all’inserimento sociale dei cittadini italiani”…”soltanto a quelle persone di cittadinanza italiana che ne hanno davvero diritto…” ecc.)

Abbiamo già segnalato che una simile previsione costituisce una colossale sciocchezza in termini di diritto dell’Unione perché non reggerebbe neppure un attimo il confronto con le clausole paritarie delle direttive UE, in particolare con l’art. 11 della direttiva 2003/109 che contiene l’amplissimo riferimento a “prestazioni sociali, assistenza sociale, protezione sociale”. Probabilmente, se si configurasse come misura non di “mera natura assistenziale, bensì di reinserimento dei cittadini italiani momentaneamente disoccupati” al punto da sostituire la NASPI (come espressamente si ipotizza nella mozione),  non reggerebbe neppure il confronto con la direttiva 2011/98.  Con il che il 90% degli stranieri (o il 60% nel primo caso) sarebbero comunque coperti, salvo dover affrontare un defatigante contenzioso.

Ma ciò che qui si vuol sottolineare è l’impossibilità di trovare una ragione logica per la limitazione ai soli cittadini, anche ponendosi nella stessa ottica propria della mozione.

La mozione prende infatti meritoriamente le mosse dai dati ISTAT sulla povertà (5.085.000 di individui in condizioni di povertà assoluta e 9.368.000 in condizioni di povertà relativa) ma soprattutto dai dati sulla disuguaglianza, con l’importante richiamo al fatto che l’Italia si colloca ai gradini più alti della diseguaglianza in Europa (ben 19 paesi UE hanno un indice di disuguaglianza più basso).

Peccato che queste premesse dimentichino che l’Italia è anche l’unico paese europeo (assieme alla Grecia) dove la disuguaglianza di reddito tra italiani e stranieri è cresciuta del 9,1 % in sette anni, passando da 24,1 % del 2009 al 33,2% del 2016 (in Francia, Germania e GB la differenza è diminuita, altrove è rimasta stabile).

Si tratta – come giustamente segnala G.Balduzzi su linkiesta del 17.5.18 –  di una conseguenza diretta del noto sbilanciamento del nostro welfare in favore della spesa pensionistica e della sostanziale assenza di interventi sociali per la fascia di età 25 – 50 anni, cioè quella dove si collocano la maggior parte degli stranieri.

Forse il retro-pensiero di chi ha partorito la mozione è che trattasi di un falso problema perché nell’ottica della Bossi-Fini entra e rimane in Italia solo chi ha una casa e un lavoro; e dunque il migrante povero per definizione non esiste, perché se è povero non può essere migrante e viceversa.

Si tratterebbe, ovviamente, di una castroneria colossale, non solo in punto di fatto, ma anche “in punto di diritto”:  ai sensi dell’art. 9 TU immigrazione,  il reddito minimo che garantisce al migrante (addirittura)  un permesso a tempo indeterminato è pari all’assegno  sociale (euro 5.889,00)   ed è quindi inferiore persino all’attuale limite del REI (euro  6.000,00 di ISEE)  e dunque è a maggior ragione inferiore a quello che si vorrebbe introdurre per un reddito di cittadinanza “rivolto anche alle classi mede”.

Non solo: ma le statistiche dimostrano che persino tra gli stranieri che lavorano, la percentuale di poveri è molto più alta rispetto alla media europea: frutto, questo, della “segmentazione etnica” del mercato del lavoro che relega gli stranieri nella aree a bassa professionalità e a basso reddito.

Dunque lo “straniero povero” con un reddito e magari un lavoro sufficiente a garantirgli di poter restare in Italia, esiste; esiste di fatto e esiste di diritto e dovrebbe essere il primo destinatario di un intervento sociale tendenzialmente universalistico. Perché mai dunque un intervento che “permetterebbe di sviluppare riforme e politiche innovative e sostenibili determinando un possibile cambiamento storico” (cosi le roboanti parole della mozione) dovrebbe tagliarlo fuori? Quale interesse potrebbe mai avere la collettività a escluderli da questo “cambiamento storico” sottraendo alla marginalità sociale e al rischio di povertà esclusivamente coloro che portano il marchio dello status civitatis?

Ovviamente non vi è risposta se non nella sfrenata e inutile ideologia del “prima gli italiani”. Se davvero avesse la meglio, ci troveremmo di fatto di fronte a due ordinamenti giuridici: quello prefigurato da norme come questa e quello uscito dalle pronunce della Corte Costituzionale (ad es. sentenza 119/17) che ha riconosciuto l’esistenza di un patto sociale che si estende a tutti i consociati per il solo fatto di convivere su un territorio, senza distinzione di  cittadinanza nella fruizione dei diritti e dei doveri, primo fra tutti quello di essere aiutati ad uscire dalla condizione di povertà.

E’ probabile (e sperabile) che le cose andranno poi diversamente, che l’illegalità e l’indecenza abbiano un limite; e che la mozione abbia solo lo scopo di mettere le mani avanti per poi poter dare in pasto all’opinione pubblica il solito “noi volevamo, ma poi ci sono messi i poteri forti, l’Europa, i burocrati…”.

Comunque vada, resterà la malinconia (e la rabbia) di vedere la superficialità con cui un ramo del parlamento ha contributo diffondere idee cosi contrarie non solo alle norme sovranazionali, ma anche alla giustizia e al buon senso.

17 settembre 2018

A cura dell’avv. Alberto Guariso, Servizio anti discriminazione ASGI