L’accesso degli stranieri al lavoro nella pubblica amministrazione e l’adeguamento (solo giurisprudenziale) alla disciplina europea

Tipologia del contenuto:Notizie

Note a margine di Trib. Milano Sez. Lavoro, 11 giugno 2018 n. 15759 e Trib. Roma Sez. Lavoro, 28 gennaio 2019 n. 798

di Alessandra Albanese
professore associato di diritto amministrativo, Università di Firenze

L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica


Tribunale di Milano, Sezione Lavoro RG n. 3314/2018;

Tribunale di Roma, Sezione II, n. 798, 28 gennaio 2019;

Tribunale di Firenze, Sezione lavoro, RG n. 1090/2017;

Consiglio di Stato, sentenza n. 9/2018;

Ministero della giustizia, Decreto 16 luglio 2019


1. Le sentenze in commento e il rapporto con quadro normativo europeo

Le due sentenze in commento, rispettivamente del Tribunale di Milano e di quello di Roma[1], hanno dichiarato discriminatoria la previsione del requisito della cittadinanza per la partecipazione al concorso per funzionario “mediatore culturale” nei ruoli dell’Amministrazione penitenziaria, indetto dal Ministero della giustizia. Le pronunce infatti hanno ritenuto il bando non conforme al diritto euro-unitario, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, sulla libera circolazione dei lavoratori europei e di quelli di paesi terzi ad essi equiparati dal diritto UE[2].

Conseguentemente il Tribunale di Roma ha condannato il Ministero della giustizia all’ammissione al concorso della ricorrente straniera; il Tribunale di Milano, invece, accogliendo la domanda presentata da due associazioni che tutelano i diritti degli stranieri esclusi, ha ordinato la riapertura del bando, per consentire ai soggetti appartenenti alle categorie discriminate di presentare domanda per la partecipazione al concorso[3].

Le due pronunce consolidano un orientamento giurisprudenziale inaugurato nel 2017 da un’ordinanza cautelare del Tribunale di Firenze, relativa al concorso per assistente giudiziario bandito dallo stesso Ministero. Tale pronuncia, già commentata in questa rivista[4], ha costituito in buona misura il modello per le successive decisioni dei giudici ordinari, intervenute sulla medesima questione giuridica, e, in particolare, per quelle che qui si commentano.

Il tema relativo al requisito della cittadinanza per l’accesso all’impiego presso le amministrazioni pubbliche italiane e alla sua compatibilità con le direttive europee sulla libera circolazione dei lavoratori europei (e di quelli ad essi equiparati), infatti, in tempi recenti è tornato decisamente di attualità, in ragione di una significativa ripresa della politica di assunzioni da parte di molte pubbliche amministrazioni, dopo un periodo quasi ventennale di assenza (o comunque di decisa rarefazione) dei concorsi pubblici. Tuttavia il dibattito circa la ratio ed i limiti della riserva di posti di lavoro e di funzioni pubbliche ai soli cittadini è ben più risalente e impegna da tempo sia la dottrina che la giurisprudenza nazionale ed europea[5]. Se, infatti, la riserva ai propri cittadini, da parte degli Stati membri dell’Unione, dei posti di lavoro presso gli enti pubblici trova il proprio fondamento giuridico a livello europeo nell’art. 45 comma 4 del TFUE, che dispone una deroga al principio della libera circolazione, prevedendo che quest’ultimo non trovi applicazione agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, tuttavia la Corte di giustizia UE, in assenza di diritto secondario esplicito sul punto ha dato un’interpretazione restrittiva di tale disposizione, in modo da non vanificare il principio espresso dal Trattato.

Il giudice europeo, attraverso una cospicua serie di pronunce, ha affermato in primo luogo che la nozione stessa di pubblica amministrazione non può essere lasciata alla libera decisione dei singoli Stati, ma deve essere una nozione europea, omogenea fra gli Stati membri[6]. Inoltre ha considerato legittima la deroga alla riserva del lavoro pubblico ai soli cittadini dello Stato membro a condizione che i posti interessati implichino la partecipazione diretta o indiretta all’esercizio dei pubblici poteri (in particolare implichino poteri di coercizione e di imperio) e riguardino attività che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche[7]. Peraltro, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, l’esercizio di tali poteri non deve essere occasionale né costituire una parte solo marginale del contenuto dell’attività da svolgere, bensì deve rappresentarne la parte prevalente[8].

La valutazione dell’ammissibilità della deroga, pertanto, deve essere fatta caso per caso, in relazione alla sussistenza delle condizioni indicate.

Proprio i criteri elaborati nel corso degli anni dalla Corte di giustizia UE sono alla base delle recenti pronunce dei nostri giudici nazionali, ivi comprese quelle in commento, che hanno accolto i ricorsi presentati da cittadini stranieri (europei e non) e dalle associazioni che tutelano i loro diritti, dichiarando discriminatorio il requisito della cittadinanza in relazione ai posti messi a concorso.

2. Il rapporto con il quadro normativo nazionale

Il quadro normativo nazionale, nonostante le modifiche ad esso apportate negli ultimi anni proprio ai fini del suo adeguamento al diritto euro-unitario, risulta tuttora disomogeneo e controverso. Ancora in tempi relativamente recenti, sono stati oggetto di letture contrastanti tanto la portata e i vincoli derivanti dalle norme costituzionali (ed in specie dall’art. 51 Cost., la cui formulazione riferisce l’accesso agli uffici pubblici ai cittadini)[9], quanto l’ampiezza e la legittimità delle deroghe al possesso di tale requisito consentite dalla disciplina interna[10].

La questione ha investito non soltanto la giurisdizione ordinaria, adita in base all’azione antidiscriminatoria specificamente prevista a tutela degli stranieri[11], ma anche quella amministrativa, chiamata – all’opposto − a giudicare della legittimità della nomina di cittadini europei, non italiani, quali dirigenti, alla guida di alcuni musei statali italiani[12].

L’accesso al lavoro presso la PA, con specifico riferimento al requisito della cittadinanza, trova la propria principale base normativa di diritto nazionale nell’art. 38 del d.lgs 165/2001. L’attuale formulazione della disposizione del Testo unico sul lavoro presso le PA prevede che: «I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale» (comma 1)inoltre l’articolo dispone che tali disposizioni «si applicano ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria» (comma 3-bis)[13].

Il decreto legislativo, fin dalla prima formulazione della disposizione richiamata[14], che nel 1994 ha aperto l’accesso al lavoro presso le PA ai cittadini europei, rinvia ad un DPCM per la definizione dei «posti» e delle «funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana». Il decreto, emanato nel 1994 (DPCM 174/1994), costituisce tuttora la base per la individuazione dei concorsi per l’assunzione di dipendenti delle pubbliche amministrazioni per i quali è necessario il requisito della cittadinanza[15].

Il DPCM del 1994 all’art. 1 indica «i posti per l’accesso ai quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana». La disposizione, in realtà, più che definire i criteri che consentano di individuare tipologie di «posti» (o di attività) che implicano tale requisito, detta un criterio di tipo «organizzativo-settoriale»[16]: infatti da un lato elenca intere categorie di dipendenti (fra le quali i dirigenti pubblici, coloro che ricoprono posti vertice di tutte le amministrazioni pubbliche, nonché i magistrati e gli avvocati dello Stato); dall’altro indica una serie di apparati pubblici, per lavorare nei quali è richiesta la cittadinanza italiana. In base a tale ultima disposizione, la riserva di posti ai cittadini italiani riguarda tutti i ruoli della Presidenza del Consiglio, nonché quelli di vari ministeri, quali quello della Giustizia, degli Affari Esteri, degli Interni, della Difesa, delle Finanze, a prescindere dalle concrete attività che costituiscono oggetto delle mansioni da svolgere[17].

Inoltre il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, all’art. 2, indica alcune «tipologie di funzioni» per le quali è possibile escludere caso per caso ulteriori posizioni lavorative[18], oltre quelle previste “in blocco” in base al criterio precedentemente esposto. Per “i posti” indicati (come si è visto, con una certa larghezza) dall’art. 1 sembra esservi invece una sorta di presunzione della partecipazione dei dipendenti di quelle categorie o di quei complessi organizzativi all’esercizio di poteri pubblici, che prescinde da qualsiasi verifica (e da specifiche motivazioni al riguardo, fornite dall’amministrazione che bandisce il concorso) relativa all’attività svolta.

Proprio tale ultimo profilo ha fondato, nelle sentenze più recenti precedentemente ricordate, la dichiarazione di non conformità del DPCM ai criteri indicati dalla giurisprudenza della CGUE, poiché la previsione di interi plessi organizzativi o di intere categorie di dipendenti può includere anche posizioni lavorative che non implicano l’esercizio di pubblici poteri. In particolare, per ciò che riguarda i profili professionali di assistente giudiziario o di mediatore culturale presso l’amministrazione penitenziaria, i giudici di merito, nelle sentenze richiamate, attraverso l’analisi puntuale delle mansioni e dell’attività svolta, hanno ritenuto che non sussistano (quanto meno in termini di prevalenza) funzioni che comportano un esercizio (autonomo) di poteri pubblici di tipo decisionale, né competenze in grado di incidere in modo diretto sulla sfera giuridica dei destinatari dell’azione amministrativa.

Da ciò la disapplicazione del DPCM, che viola il principio euro-unitario della libera circolazione dei lavoratori europei e di quelli ad essi equiparati dalle direttive UE, nonché l’affermazione della natura discriminatoria della previsione del requisito della cittadinanza.

Vi è tuttavia un aspetto ulteriore di illegittimità del decreto n. 174 del 1994, evidenziato per la prima volta dal Tribunale di Milano nella sentenza che qui si commenta, che è degno di essere sottolineato, poiché rinforza e completa le argomentazioni già svolte nelle altre pronunce che hanno disapplicato la disciplina dettata in materia di riserva dei posti di lavoro presso le PA ai soli cittadini italiani, accogliendo le azioni antidiscriminatorie.

Il giudice milanese, nella sua decisione, rileva come, prima ancora che rispetto alla normativa europea, il DPCM n. 174/1994 si palesi illegittimo rispetto alla normativa nazionale ed in particolare rispetto alla fonte primaria della materia, costituita dall’art. 38 del d.lgs 165/2001, precedentemente richiamato. Tale articolo, infatti, prevede espressamente che debbano essere definiti i «posti e le funzioni» per i quali è necessario il requisito della cittadinanza e, secondo il Tribunale di Milano, «la nozione di posti lascia chiaramente intendere la necessità di una loro specifica individuazione all’interno dell’organico di ogni singola amministrazione laddove quella di funzioni è chiaramente indirizzata alla individuazione di specifici ruoli e compiti assegnati nell’ambito di tale organizzazione». Secondo la sentenza in esame, pertanto, «è lo stesso legislatore nazionale ad avere escluso che vi possano essere interi comparti amministrativi che per ciò solo possano precludere l’accesso a chi sia privo della cittadinanza italiana».

Si potrebbe in altri termini affermare che, per il Tribunale di Milano, ancorché la sentenza non lo affermi esplicitamente, il DPCM n. 174 del 1994 deve essere disapplicato in base all’art. 5 della legge 2248/1865, abolitrice del contenzioso amministrativo, in quanto non conforme ad una norma di rango legislativo del nostro ordinamento, prima (e oltre) che per la sua non conformità alla normativa europea.

La ricostruzione dei criteri elaborati dalla Corte di giustizia per l’applicazione dell’art. 45 del TFUE, pertanto, serve, nella decisione in esame, in primo luogo a suffragare la tesi della conformità rispetto ai dettami della giurisprudenza europea dell’art. 38 del TU sul lavoro presso le PA, la cui formulazione (e la relativa interpretazione, sia letterale che finalistica) porta, conseguentemente, anche a ritenere illegittimo il DPCM n. 174/1994.

3. L’Adunanza plenaria n. 9/2018 del Consiglio di Stato

Le due sentenze che si commentano, in definitiva, sono significative perché consolidano e, come si è avuto modo di vedere, ulteriormente supportano, l’orientamento del giudice ordinario che afferma la non conformità del DPCM n. 174/1994 ai principi dell’ordinamento europeo e ai parametri individuati dalla Corte di giustizia ai fini dell’interpretazione dell’art. 45 del TFUE.

Tale linea interpretativa, peraltro, non è stata espressa solo in sede di giurisdizione ordinaria, ma recentemente è stata fatta propria anche dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Il massimo consesso giurisdizionale amministrativo, infatti, è stato chiamato ad esprimersi per chiarire proprio la lettura da dare al DPCM, controversa sia fra i TAR che fra le diverse sezioni del Consiglio, in relazione al contenzioso suscitato dalle nomine di candidati stranieri (ancorché cittadini europei) quali dirigenti di musei statali[19].

Il tema del contendere, davanti al giudice amministrativo, riguardava l’art. 1 del decreto che, come si è già avuto modo di evidenziare, riserva ai cittadini italiani anche l’accesso alla categoria dirigenziale, senza che abbiano alcuna rilevanza né la tipologia di apparato amministrativo da dirigere, né le funzioni che costituiscono oggetto dell’attività dirigenziale da svolgere.

L’Adunanza plenaria, facendo piena applicazione della giurisprudenza della Corte di giustizia precedentemente ricordata e ribadendo il principio della primazia del diritto euro-unitario, ha ritenuto, tuttavia, che non si possa rinvenire «alcuna ragione per riconoscere in modo indistinto l’esercizio dell’autorità pubblica e la responsabilità di salvaguardare gli interessi generali dello Stato (e quindi la possibilità di attivare la “riserva di nazionalità”) a fronte di qualunque posto di livello dirigenziale dello Stato (quand’anche deputato – ad esempio – a mere attività di consulenza, studio e ricerca ai sensi del comma 10 dell’articolo 19 del decreto legislativo n. 165 del 2001)»inoltre ha affermato che non trova alcun «puntuale conforto testuale o sistematico la tesi secondo cui tutti i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato sarebbero qualificabili sempre e comunque come posti con funzioni di vertice amministrativo e implicherebbero l’esercizio prevalente di funzioni di stampo autoritativo». In particolare, secondo il Consiglio di Stato, l’esame delle attribuzioni dei direttori (peraltro non dirigenti generali) dei musei in questione evidenzia che esse consistono prevalentemente in compiti attinenti ai profili organizzativo-gestionale e di valorizzazione delle risorse, per i quali «non è legittimamente apponibile la riserva di nazionalità».

Anche l’Adunanza plenaria ha ritenuto quindi che sussista un insanabile contrasto fra il DPCM n. 174/1994 e l’art. 45 comma 4 del TFUE, non superabile attraverso interpretazioni di tipo adeguativo, e ha pertanto disapplicato il decreto, facendo diretta applicazione della norma del Trattato.

4. I possibili “rimedi” per un adeguamento definitivo del quadro normativo nazionale a quello europeo

Come si è evidenziato, appare sempre più largamente condiviso dalla giurisprudenza il dato della non compatibilità con il diritto UE delle disposizioni del DPCM n. 174/1994 che consentono di riservare ai cittadini italiani l’accesso al lavoro presso la PA anche a prescindere dall’esercizio concreto di poteri amministrativi. Ci si deve interrogare, a questo punto, su quali siano i possibili rimedi per uscire dall’impasse delle ripetute violazioni del principio di libera circolazione dei lavoratori europei e di quelli ad essi equiparati, da parte dei bandi di concorso che fanno applicazione delle previsioni del decreto che contrastano col diritto euro-unitario.

Le azioni antidiscriminatorie, esperite in base all’art. 44 del d.lgs. 286/1998 e dell’art. 28 del d.lgs 150/2011, che hanno dato origine alle pronunce in commento, sono state essenziali per portare in evidenza la questione e restano comunque imprescindibili per la risoluzione dei singoli casi che via via si presentano; tuttavia esse non consentono di giungere ad un adeguamento stabile del sistema, poiché costituiscono uno strumento ex post, da attivare ogni qualvolta venga bandito uno specifico concorso che richiede ingiustificatamente il requisito della cittadinanza.

Per contro, l’esperimento del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE da parte di un organo giurisdizionale, che chiedesse alla Corte di giustizia di esprimersi specificamente sulla compatibilità col diritto dell’Unione di una disciplina che riservi ai cittadini italiani anche posti che in concreto non implicano l’esercizio di poteri, potrebbe consentire di fare chiarezza in modo definitivo sulla questione. Una pronuncia interpretativa della Corte del Lussemburgo che attestasse il contrasto di tale disciplina col principio di libera circolazione dei lavoratori non produrrebbe effetti caducatori del DPCM; essa tuttavia porrebbe certamente un punto fermo che né il Governo, né la Pubblica amministrazione potrebbero più ignorare.

Va tuttavia considerato che, fino ad ora, i giudici nazionali – tanto ordinari quanto amministrativi − non hanno ritenuto di valersi di tale strumento, e non senza ragione poiché, considerando chiare le modalità di applicazione dell’art. 45 del TFUE delineate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, hanno conseguentemente proceduto a disapplicare essi stessi la norma regolamentare interna non conforme. Non è quindi facilmente ipotizzabile che vi ricorrano, quanto meno se si allineano ai punti di arrivo dell’attuale giurisprudenza.

Un’ulteriore possibilità è l’esperimento dell’azione di annullamento del DPCM 174/1994 dinanzi al giudice amministrativo, da parte di stranieri esclusi dalla partecipazione a concorsi per i quali sia (indebitamente) previsto il requisito della cittadinanza.

La rimozione dell’atto (illegittimo) dall’ordinamento, operando con effetto erga omnes, eviterebbe ulteriori applicazioni a successivi concorsi della normativa contenuta nel decreto, nella parte in cui è incompatibile con i principi del diritto euro-unitario.

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella sentenza n. 9 del 2018 sui direttori dei musei, ha disapplicato il DPCM n. 174/1994, in quanto non conforme al diritto europeo, ritenendo necessaria una verifica in concreto del presupposto dell’esercizio di pubblici poteri, che legittima la riserva di cittadinanza per l’accesso al lavoro presso le amministrazioni pubbliche. La pronuncia, come si è evidenziato in precedenza, è riferita specificamente alle disposizioni del DPCM relative ai posti dirigenziali; tuttavia la relativa ratio appare estensibile anche alle disposizioni che prevedono il requisito della cittadinanza per interi comparti organizzativi, che sono state oggetto delle pronunce dei giudici ordinari in commento.

Inoltre, come si è avuto modo di osservare, a suffragio della illegittimità del DPCM militano anche le ragioni, evidenziate nella sentenza del Tribunale di Milano che qui si commenta, legate alla violazione da parte del decreto stesso della normativa nazionale ed in particolare dell’art. 38 del d.lgs 165/2001.

L’annullamento del DPCM da parte del giudice amministrativo rimuoverebbe la base normativa su cui si fonda la previsione estensiva del requisito della cittadinanza e pertanto costringerebbe fin da subito la PA a motivare la richiesta del possesso di tale requisito nei bandi di concorso, attraverso la indicazione dei poteri amministrativi e delle finalità pubbliche che costituiscono la parte prevalente dell’attività che dovrà essere svolta dai dipendenti da assumere.

Non si può tuttavia sottacere che anche la praticabilità dell’esperimento dell’azione di annullamento, ai fini di una risoluzione definitiva del problema in esame, presenta profili di criticità. Si tratta di aspetti concreti, legati soprattutto alle regole processuali.

È possibile, infatti, che l’interesse alla impugnativa del bando che prevede il requisito della cittadinanza (e con essa, del DPCM 174/1994), esperita da un candidato straniero, venga meno dopo l’eventuale mancato superamento delle prove cui il ricorrente fosse stato ammesso con riserva in sede cautelare.

Inoltre, nel processo amministrativo è certamente più problematica di quanto non lo sia in sede di giurisdizione civile (e in specie di azione antidiscriminatoria) la possibilità di dare accesso ad istanze collettive delle posizioni giuridiche degli stranieri esclusi dal concorso, rappresentate da associazioni di tutela.

In definitiva, la soluzione più lineare per risolvere alla radice il problema della esclusione dei cittadini europei, e di quelli stranieri ad essi equiparati, dall’accesso a posti di lavoro presso le PA che non implichino l’esercizio prevalente di poteri amministrativi sarebbe, come è evidente, la modifica del DPCM n. 174/1994 ad opera del Governo. La Presidenza del Consiglio dovrebbe infatti provvedere ad adottare un nuovo regolamento, che superi il criterio di individuazione dei «posti» da riservare ai cittadini per interi comparti pubblici e fornisca piuttosto dei criteri che orientino le amministrazioni pubbliche, rendendole in grado di motivare, per ciascun profilo professionale interessato dal concorso, le ragioni, quando sussistono, che consentono legittimamente di escludere dall’accesso al lavoro nelle pubbliche amministrazioni i cittadini di altri paesi europei e quelli equiparati a questi ultimi.

Un intervento governativo in tale direzione è stato sollecitato anche dall’Adunanza plenaria del giugno 2018, nella sua parte conclusiva. L’esortazione del giudice amministrativo contiene anche un esplicito riferimento a «evidenti ragioni di certezza giuridica» che lo rendono necessario[20]: è infatti facile comprendere come la perdurante applicazione delle norme del DPCM incompatibili con il diritto UE susciti inevitabilmente un contenzioso destinato a creare incertezza nei potenziali candidati discriminati e a produrre inefficienza nella gestione dei concorsi.

Si può quindi sperare che la pressione esercitata sul Governo dalle pronunce commentate possa effettivamente condurre in tempi ragionevoli ad una modifica del decreto.


[1] Trib. Milano Sez. Lavoro, 11 giugno 2018 n. 15759 e Trib. Roma sez. Lavoro, 28 gennaio 2019 n. 798.

[2]  Sono equiparati ai cittadini europei i familiari di cittadini europei, i titolari di permesso di lungo periodo, i titolari dello status di rifugiato e i titolari di protezione sussidiaria (direttiva 2004/38/CE).

[3] Il Ministero si è recentemente adeguato al dictum del tribunale milanese, riaprendo i termini del bando limitatamente alle categorie discriminate, col Decreto 16 luglio 2019 del Direttore generale del personale e delle risorse del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, pubblicato sul sito del Ministero il 9 agosto 2019.

[4] Tribunale di Firenze, sez. Lavoro, ord. del 27 maggio 2017 RG n. 1090/2017 con commento di F. Buffa, La partecipazione degli stranieri extracomunitari regolari al concorso pubblico per assistente giudiziario, in questa Rivista on-line, 12 aprile 2018; su tale pronuncia cfr. anche A. Arena, Il requisito della cittadinanza Italiana nell’accesso ai concorsi Pubblici: brevi spunti di riforma alla luce della recente giurisprudenza, in SIDIBlog, 27 luglio 2017, ; si veda inoltre l’ordinanza conclusiva del medesimo processo, Tribunale di Firenze 26.6.2018.

[5] Cfr. R. Caranta, La libertà di circolazione dei lavoratori nel settore pubblico, in Dir. Un. Eur., fasc.1/1999, p. 21; A. Guariso, Cittadinanza e lavoro pubblico, in Lavoro e diritto, 2009, p. 563. J. Ziller, Free Movement of European Union Citizens and Employment in the Public Sector, in Online Journal on free movement of workers within the European Union, n. 2/2011. Per una ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale sul tema in esame si veda inoltre F. Battaglia, I differenti orientamenti giurisprudenziali in materia di accesso al pubblico impiego fra atteggiamenti di chiusura e approcci più attenti al diritto dell’Unione Europea, in Federalismi.it, 11 ottobre 2017.

[6]  Cfr. CGUE C-149/79 Commissione c. Belgio, 17 dicembre 1980, cit, secondo la quale, se è vero che l’art. 48 n. 4 del Trattato «tiene conto dell’interesse legittimo degli Stati membri di riservare ai propri cittadini un complesso di posti connessi all’esercizio dei pubblici poteri ed alla tutela degli interessi generali, si deve al tempo stesso evitare che l’efficacia pratica e la portata delle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei lavoratori ed alla parità di trattamento dei cittadini di tutti gli Stati membri siano limitate da interpretazioni della nozione di pubblica amministrazione tratte dal solo diritto nazionale e che ostino all’applicazione delle norme comunitarie».

[7] Cfr., CGUE C-149/79 Commissione c. Belgio, 17 dicembre 1980. Secondo la Corte infatti le deroghe al principio della libera circolazione attengono a posti che presuppongono «da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza»; cfr. anche CGUE C- 405/01 del 30 settembre 2003, Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española.

[8] Cfr. CGUE C- 405/01 del 30 settembre 2003, Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española, cit.; nonché la più recente CGUE C‑270/13, 10 settembre 2014, Haralambidis. In tal modo la Corte ha escluso l’applicazione del criterio del “contagio” (così definito dal Cons. Stato, A.P. n.9/2018), per il quale la presenza anche di un solo potere amministrativo vale a connotare in senso pubblicistico la funzione svolta dal dipendente e a consentire allo Stato membro la riserva del posto ai soli propri cittadini, preferendo invece il criterio della prevalenza delle funzioni.

[9]  L’interpretazione data da tempo dalla giurisprudenza a questa disposizione ha evidenziato come essa non intenda precludere in modo assoluto l’accesso all’impiego presso le PA ai non cittadini, quanto assicurare la parità di accesso ai pubblici uffici: si veda Cons. Stato, Sez. VI, del 4 febbraio 1985, n. 43: «L’art. 51 della Costituzione deve essere interpretato nel senso che dispone una riserva solo relativa a favore dei cittadini, con la ratio precipua di garantire ad essi condizioni di eguaglianza ai fini dell’accesso al pubblico impiego, onde non se ne può trarre la conseguenza che gli stranieri e i rifugiati siano automaticamente esclusi». Secondo la Corte di cassazione, inoltre, lo scopo dei costituenti era quello di «garantire che i fini pubblici fossero perseguiti e tutelati nel migliore dei modi, e di puntare per questo sui cittadini, nei quali si riteneva esistente una naturale compenetrazione dei fini personali in quelli pubblici», pertanto la norma consente «una lettura restrittiva del riferimento agli uffici pubblici, limitata cioè all’esercizio di attività autoritative», così Corte Cass., Sez. lavoro, 13 novembre 2006, n. 24170, in Diritto e giustizia, 2006, p. 19 con nota di F. Di Pietro, nonché con nota di E. Agostiniani, in Rivista di diritto del lavoro, 2007, II, p. 302. Per una lettura “estensiva” dell’art. 51 Cost., fondata soprattutto sul rapporto di tale norma con l’art. 11 Cost., si veda inoltre Cons. Stato, sez. IV, 10 marzo 2015, n. 1210. Ha fornito invece una lettura del testo costituzionale più restrittiva delle possibilità di accesso degli stranieri agli uffici pubblici, Corte di cass., Sez. Lavoro, 2 settembre 2014, n. 18523, con nota di A. Terzi, Cittadini stranieri ed accesso ai pubblici impieghi: una questione ormai risolta?, in questa Rivista on-line, 11 febbraio 2015.


[10] Oltre alle pronunce già citate nelle note precedenti, si veda anche l’ordinanza del Tribunale civile di Torino del 12 giugno 2018, relativa ad un concorso bandito dalla Asl Napoli 2 Nord.

[11] Ai sensi degli art. 44 d.lgs 286/1998, 4 d.lgs 215/2003 e 28 d.lgs 150/2011.

[12] Tar Lazio, Roma, sent. 24 maggio 2017, n. 6171, con nota di A. Liguori, Il requisito della cittadinanza italiana nell’esercizio della funzione pubblica: il caso dei direttori dei musei, in Giustamm, 2017, p. 11; nonché Cons. Stato, sez. VI, 2 febbraio 2018 n. 677 ed infine Cons. Stato A.P. 18 aprile-25 giugno 2018 n. 9, su cui si tornerà nel prosieguo.

[13] L’articolo 38 è stato modificato dalla legge 6 agosto 2013 n. 97, in seguito all’apertura di una procedura di infrazione nei confronti del nostro paese, per la non conformità della originaria formulazione con le direttive europee che equiparano ai cittadini europei quelli in possesso di determinate tipologie di permesso di soggiorno.

[14] Introdotta dal dPR n. 487/1994.

[15] Il DPCM viene richiamato e confermato dal dPR 4 maggio 1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi).

[16] Così definito dal Tribunale di Firenze, Sez. Lavoro, nell’ordinanza del 26 giugno 2018, già cit.

[17] Con la sola eccezione dei posti a cui si accede in applicazione dell’art. 16 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, vale a dire i posti che non richiedono un titolo superiore a quello della scuola dell’obbligo, per i quali è ammesso il ricorso alle liste di collocamento.

[18] Secondo l’art. 2, le tipologie di funzioni delle amministrazioni pubbliche per il cui esercizio si richiede il requisito della cittadinanza italiana sono le seguenti: a) funzioni che comportano l’elaborazione, la decisione, l’esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi; b) funzioni di controllo di legittimità e di merito. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, sentita l’amministrazione competente, esprime, entro sessanta giorni dalla ricezione della domanda dell’interessato, diniego motivato all’accesso a specifici impieghi o all’affidamento di incarichi che comportino esercizio di taluna delle funzioni precedentemente indicate.

[19] Cfr. Cons Stato A.P. 18 aprile-25 giugno 2018 n. 9, con commenti di C. Prevete, L’apertura della dirigenza pubblica agli “stranieri” per la gestione dei musei (Commento alla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9/2018), in Osservatorio Costituzionale, AIC, Fascicolo 3/2018.

[20] «Spetterà quindi al Governo, per evidenti ragioni di certezza giuridica, adottare le determinazioni conseguenti alla rilevata illegittimità de iure communitario della richiamata disposizione regolamentare».


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