Caso Suarez e cittadinanza, in Italia una corsa a ostacoli che può durare anche otto anni

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Con il Decreto sicurezza l’accesso è stato ristretto ancora di più e il problema maggiore è la durata del procedimento amministrativo. L’articolo di Francesco di Pietro, avvocato ASGI, pubblicato da Umbria24 il 24 settembre 2020.

L’attuale legge sulla cittadinanza (la 91 del 1992) si basa sulla distinzione ius sanguinis/ius soli. Distinzione risalente al ‘900 e inadeguata a rispondere alle nuove esigenze connesse al fenomeno migratorio. Tutti i tentativi degli ultimi anni volti a modificare la normativa non hanno mai avuto esito positivo. Anzi, più di recente, con la legge 132 del 2018 (che ha convertito in legge il cosiddetto Decreto sicurezza) l’accesso alla cittadinanza italiana è stato ristretto ancor di più. Il più grande problema che incontrano i migranti che hanno presentato la relativa domanda è la durata del procedimento amministrativo. La citata legge 132 ne ha raddoppiato enormemente i tempi che passano da due a quattro anni. È il procedimento amministrativo più lungo tra tutti quelli previsti nel nostro ordinamento giuridico. Si tratta, tra l’altro, di termini ordinatori e non perentori: con il precedente termine di due anni, di fatto l’iter durava in moltissimi casi anche quattro o cinque anni. Adesso, con il nuovo termine di quattro anni, la decisione potrebbe giungere anche dopo otto anni, lasciando così il richiedente nella totale indeterminatezza.

I neomaggiorenni Tali lungaggini incidono negativamente anche sulle poche norme di favore per le seconde generazioni. Infatti, al momento del giuramento da cittadino italiano diventano automaticamente cittadini anche i figli minori conviventi. Ma se, a causa dei ritardi della Pubblica amministrazione, tali figli sono nel frattempo diventati maggiorenni in corso di procedimento, perderanno un’importante occasione per diventare subito cittadini. Saranno quindi costretti a presentare un’autonoma domanda, provando i requisiti e attendendo tanti anni per l’esito. Criticità si riscontrano anche per altra norma di interesse per i migranti G2: la possibilità di chiedere la cittadinanza italiana al compimento della maggior età per i neomaggiorenni nati in Italia. È l’unica norma improntata, sia pur in modo limitato, sullo ius soli. Vi è stato modesto intervento legislativo (l’articolo 33 del decreto legge 69 del 2013) a sostegno dei neomaggiorenni nati in Italia: il Comune di loro residenza ha l’onere di informarli di tale facoltà. Ma la criticità che essi incontrano nella maggior parte dei casi è l’assenza della continuità di iscrizione anagrafica sino al diciottesimo anno di età per ragioni connesse alla regolarità del soggiorno dei genitori.

Gli ostacoli Tornando al tema del procedimento amministrativo, gli ostacoli iniziano ancor prima della presentazione della domanda. Infatti, per la concessione della cittadinanza per residenza decennale in Italia (che costituisce il motivo più diffuso di domanda), è necessario provare il possesso di un reddito degli ultimi tre anni precedenti alla presentazione dell’istanza pari a 8.263,31 euro (in caso di richiedente senza coniuge e figli; diversamente sono previste soglie maggiori). Spesso molti migranti, sia pure ben integrati da anni in Italia, sono impossibilitati a provare tale requisito a causa di situazioni di lavoro nero e sommerso. Inoltre, vi sono particolari difficoltà per le donne migranti prive di reddito proprio: esse potranno presentare domanda facendo riferimento ai redditi del coniuge. In tal modo la legge priva la donna della sua autodeterminazione: potrà diventare italiana solo se lo vuole il marito. Il problema del reddito è poi acuito dalle lungaggini del procedimento di cui si è detto. A volte il Ministero dell’Interno (competente per le domande di cittadinanza per residenza) richiede la prova della presenza di tale requisito anche successivamente alla presentazione della domanda. Si assiste, quindi, a rigetti della domanda per disoccupazione sopravvenuta in corso di procedimento.

Discrezionalità Questo in quanto la Pubblica amministrazione ha ampia discrezionalità nel valutare tutti i fatti che siano di ostacolo all’ottenimento della cittadinanza per residenza. Ne consegue che in alcuni casi sono state considerate ostative delle mere e risalenti denunce o segnalazioni per reati di scarso allarme sociale. In altri casi, sono state considerate ostative le condanne in capo al coniuge o al figlio del richiedente (a discapito del principio della personalità della responsabilità penale). Non è agevole neanche procurarsi la documentazione da allegare alla domanda presso i competenti uffici in Italia. La legge 132 del 2018 ha infatti stabilito in sei mesi il termine massimo per il rilascio da parte degli uffici comunali dei certificati necessari: normalmente questo tipo di documenti vengono rilasciati subito allo sportello al momento della richiesta. Maggiori difficoltà si incontrano spesso nel reperire la documentazione proveniente dall’estero: certificato di nascita e certificato penale. In alcuni casi, si tratta di documentazione inesistente nel paese d’origine. In altri casi, i dati riportati sono differenti da quelli presenti sui documenti italiani. E l’elenco potrebbe continuare.

La lingua Qualsiasi richiesta di cittadinanza per residenza presuppone l’iscrizione anagrafica continuata sul territorio italiano (di dieci anni per la maggior parte dei casi). Ne consegue che in caso di interruzioni, anche brevi, nella continuità anagrafica, non sarà presente il detto requisito: il migrante dovrà iniziare da capo il conteggio dei dieci anni. E il migrante, che solitamente si sposta sul territorio nazionale per ragioni lavorative (si va a vivere nel comune dove c’è il lavoro), può incorrere nella cancellazione anagrafica per irreperibilità (succede spesso nell’anno in cui avviene il censimento). Infine, la citata legge 132 del 2018 ha previsto che sia la domanda di cittadinanza per residenza che quella per matrimonio con cittadino italiano è subordinata al possesso di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (con l’esclusione degli stranieri che abbiano sottoscritto l’accordo di integrazione e dei titolari di permesso di lungo periodo). Su tale requisito, che sta occupando le cronache di questi giorni, mi sia consentito di chiudere con una divagazione letteraria: la poesia «Il giudice democratico» di Bertolt Brecht.

A Los Angeles, dinanzi al giudice che esamina
chi s’impegna per diventare cittadino degli Stati Uniti d’America,
si presentò anche un taverniere italiano. Dopo una seria preparazione,
ma purtroppo impedito dal non conoscere la nuova lingua,
durante l’esame, alla domanda:
Che cosa dice l’Ottavo Emendamento?, rispose esitante: 1492.
Poiché la Legge prescrive al candidato la conoscenza della lingua nazionale,
fu respinto. Si ripresentò
dopo tre mesi di ulteriori studi,
ma sempre impedito dal non conoscere la nuova lingua.
Stavolta gli fu posta questa domanda:
Chi fu il Generale che vinse la Guerra Civile? Rispose: 1492.
(A voce alta e cordialmente). Fu di nuovo respinto;
Quando si presentò la terza volta, rispose
a una terza domanda: Per quanti anni dura in carica il Presidente? Rispose ancora: 1492.
Insomma il giudice, al quale quell’uomo stava simpatico,
dovette riconoscere che non ce la faceva a imparare la nuova lingua.
E allora s’informò su come quell’uomo viveva,
e lo seppe: lavorando duramente.
Quando si ripresentò la quarta volta, il giudice gli chiese:
Quando fu scoperta l’America?
Rispose esattamente: 1492,
e ottenne la cittadinanza.

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