La riproposizione degli ostacoli da parte del Governo italiano allo sbarco delle persone ricercate e soccorse in mare da navi umanitarie costringe a ripercorrere i principi basilari del diritto internazionale, europeo e nazionale in materia di responsabilità degli Stati e di rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse.
di Chiara Favilli
professoressa ordinaria di Diritto dell’Unione europea, Università di Firenze
L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica.
1. Obbligo di ricerca e soccorso in mare: l’irrilevanza giuridica delle ragioni del viaggio
L’obbligo di ricerca e soccorso delle persone in mare è norma di diritto consuetudinario chiara, precisa e incondizionata, idonea a vincolare qualsiasi soggetto pubblico e privato in qualsiasi lembo di mare del pianeta Terra (I. Papanicolopulu, International law and the protection of people at sea, Oxford, 2018). Ulteriori regole sono state previste a livello convenzionale, dell’Unione e nazionale per concorrere ad applicare tale regola nel modo più efficace possibile. In questo senso devono essere considerate le regole sul coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso, inclusa la delimitazione di aree Search and Rescue (SAR), volte non ad escludere l’obbligo principale di ricerca e soccorso ma a garantirne una sua efficace applicazione (F. De Vittor, Soccorso in mare e rimpatri in Libia: tra diritto del mare e tutela internazionale dei diritti dell’uomo, in Rivista di diritto internazionale, 2009, p. 800 ss.).
Le ragioni per cui una persona abbia intrapreso un periglioso viaggio, durante il quale è stato necessario soccorrerla, sono tanto irrilevanti sul piano giuridico, quanto ritenute cruciali sul piano politico (si v. l’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare; Parlamento europeo, Search and Rescue efforts for Mediterranean migrants, Briefing, 24 ottobre 2022). Sulla base, infatti, della presunzione della qualificazione delle persone salvate in mare come “migranti”, l’Italia, tutti gli altri Stati membri dell’UE e l’UE stessa hanno pianificato e realizzato una complessa rete di accordi e prassi operative con la collaborazione dei Paesi di origine e di transito volte ad impedire alle persone di lasciare il proprio territorio o quello degli Stati di transito, se prive delle necessarie autorizzazioni per entrare negli Stati dell’Unione (C. Favilli, Nel mondo dei “non-accordi”. Protetti sì, purché altrove, in Questione giustizia, 2020, 2, p. 143 ss.). Tali attività, la cui efficacia è in gran parte condizionata dalla volontà di cooperazione dei Paesi di origine e di transito, hanno reso ancora più difficile l’accesso al territorio dell’Unione per tutti, anche per i richiedenti asilo: è ormai notorio, infatti, che i c.d. flussi migratori sono misti, vale a dire che nella medesima rotta, nel medesimo mezzo di trasporto, sia terrestre sia marittimo, vi sono sia persone bisognose di protezione internazionale sia persone che non lo sono. Anche per questo, le persone soccorse in mare devono essere trasferite nel porto sicuro più vicino, dove potranno ricevere assistenza sanitaria e materiale urgente e richiedere protezione internazionale o essere respinte in mancanza di altri titoli validi per l’ingresso (S. Amadeo, F. Spitaleri, Il diritto dell’immigrazione e dell’asilo dell’Unione europea. Controllo delle frontiere, protezione internazionale, immigrazione regolare, rimpatri, relazioni esterne, Torino, 2019; si veda anche l’allegato appello rivolto al Governo). Sono inoltre applicabili anche procedure di esame delle domande di protezione accelerate e alla frontiera, così da rendere più rapido l’esame delle domande che si presumono infondate, ad es. perché provenienti da un Paese sicuro (N. Morandi, Le procedure accelerate per l’esame della domanda di protezione internazionale: analisi dell’art. 28-bis, d.lgs. n. 25/2008, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2020, 3). Non esiste invece alcuno scanner, dispositivo di intelligenza artificiale o qualsiasi altro strumento intuitu personae che possa discernere rapidamente in un gruppo di persone chi sia autenticamente bisognosa di protezione e chi non lo sia. Rapidamente si può individuare solo chi ha bisogno di cure e non chi ha diritto alla protezione internazionale.
2. Il porto sicuro più vicino quale Stato competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale
Una volta sbarcate, per le persone richiedenti protezione internazionale l’Italia non è più solo il porto sicuro più vicino, ma anche lo Stato competente ad esaminare la domanda di protezione secondo il regolamento Dublino: in mancanza di presupposti per l’applicazione di uno dei criteri volti a radicare la competenza in un altro Stato membro, si applica infatti il criterio residuale ma ad applicazione prevalente dello Stato di primo ingresso irregolare (C. Favilli, Reciproca fiducia, mutuo riconoscimento e libertà di circolazione di rifugiati e richiedenti protezione internazionale nell’Unione Europea, in Rivista di diritto internazionale, 2015, p. 701 ss.). Persino il beneficiario di protezione internazionale deve tendenzialmente rimanere in Italia, non avendo un diritto di soggiorno in altro Stato membro (G. Morgese, La riforma del sistema Dublino: il problema della condivisione delle responsabilità, in Diritto pubblico, 2020, p. 97 ss.). Una regola, quella del regolamento Dublino, irragionevole, che ha creato ripetute tensioni tra gli Stati membri e che è all’origine della intermittente prassi italiana volta ad ostacolare o ad impedire l’azione delle navi umanitarie nel Mediterraneo. Una regola presente sin dal Trattato di Dublino del 1990, mantenuta nei regolamenti dell’UE nei quali tale Trattato è stato trasfuso e sulla quale i Governi dell’UE non sono mai riusciti a concordare proposte di riforma, a differenza del Parlamento europeo che il 16 novembre del 2017 aveva approvato a larga maggioranza una proposta di modifica, coinvolgendo deputati di diversi orientamenti politici e provenienti da Stati del Nord, Sud, Est ed Ovest Europa (Parlamento europeo, Dublino: Paese di arrivo non più automaticamente responsabile per domande asilo, Comunicato stampa del 16 novembre 2017; F. Maiani, The Reform of the Dublin III Regulation, European Parliament Study, 2016). In mancanza di riforme, solo la cooperazione tra alcuni Stati membri, c.d. volenterosi, ha realizzato una timida condivisione degli sforzi delle operazioni di ricerca e soccorso in mare e della successiva accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (Francia e Germania ricollocheranno diecimila migranti sbarcati in Italia, Comunicato stampa AGI del 5 agosto 2022). Se infatti è vero che il numero dei richiedenti protezione internazionale negli Stati di frontiera interna, in primis la Germania, è superiore a quello dei richiedenti in Italia (Commissione europea, Statistiche sulla migrazione verso l’Europa), è altrettanto vero che le modalità delle operazioni di ricerca e soccorso in mare e la quantità di persone che contemporaneamente giungono nei porti di sbarco rendono particolarmente difficili, rischiose e costose tali operazioni. Il combinato disposto poi tra obbligo di ricerca e soccorso in mare e radicamento della competenza ad esaminare la domanda di protezione da parte dello Stato del porto sicuro costituisce un ulteriore profilo di irragionevolezza, tale da richiedere una legislazione diversa a livello di Unione.
3. Il tentativo di affermare una nuova regola internazionale sulla responsabilità dello Stato di bandiera
Sono dunque le tensioni a terra che determinano le tensioni in mare, con il tentativo del Governo italiano di aggirare l’applicazione del regolamento Dublino, non applicando l’obbligo di ricerca e soccorso in mare e, in particolare, il conseguente consenso allo sbarco delle persone salvate. Dopo la stagione dei “porti chiusi”, questa è la stagione dei “porti semichiusi”, i cui profili di illegittimità sono però abnormi come quelli della prima (L. Masera, Soccorsi in mare e diritto penale nella stagione dei porti chiusi. Alcune riflessioni a partire dal caso di Carola Rackete, in La legislazione penale, 2022, 4). Nel Decreto interministeriale del 4 novembre 2022 adottato dal Ministro dell’Interno di concerto con il Ministro della Difesa e dal Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili si codifica infatti l’ammissione selettiva «nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali e in precarie condizioni di salute segnalate dalle competenti autorità nazionali»; a tutte le altre persone viene riservata «l’assistenza necessaria per l’uscita dalle acque territoriali». Attraverso questa disposizione è chiaramente disciplinato un respingimento collettivo, in violazione del principio di non-refoulement, sancito in molteplici regole di rango internazionale, europeo e nazionale: tutte le persone hanno infatti il diritto di sbarcare in un porto sicuro, non solo i minorenni e coloro che hanno bisogno di cure; nessuno può inoltre essere allontanato dalla frontiera senza un esame individuale della propria situazione, alla luce di quanto prima precisato, ossia del carattere misto dei flussi migratori e del diritto di ogni persona di interloquire con le autorità dello Stato almeno per poter rappresentare la propria posizione individuale (I. Papanicolopulu, G. Baj, Controllo delle frontiere statali respingimenti nel diritto internazionale e nel diritto del mare, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2020, 1; S. Trevisanut, The Principle of Non-Refoulement at Sea and the Effectiveness of Asylum Protection, in Max Planck Yearbook of United Nations Law, 2008, 12, p 205 ss.).
In occasione della conferenza stampa di presentazione del decreto, il Ministro primo firmatario ha affermato che si tratta di un «”primo atto di una politica che non vuole deflettere dal rispetto degli obblighi umanitari, ma senza deflettere sull’esigenza di mantenere il punto sui paesi di bandiera” delle navi Ong. Il “problema di chi arriva” deve essere condiviso proprio con i paesi di bandiera: “Quando si sale su una nave in acque internazionali si sale sul terreno di quel Paese”» (Cdm, Piantedosi ribadisce la linea dura sui migranti: «Aiuti solo a chi ha diritto» – Open).
Grazie alla narrativa di accompagnamento del decreto si evince la convinzione del Governo di applicare una regola diversa e superiore rispetto a quella della ricerca e soccorso in mare, la “regola dei Paesi di bandiera delle navi umanitarie”. In base a questa regola, le persone non dovrebbero essere sbarcate nel porto sicuro più vicino ma nello Stato di bandiera, non è dato sapere se dopo lo sbarco in altro Paese o circumnavigando l’Europa. Non è dato saperlo perché la regola non esiste. Nella stagione dei porti chiusi, era stato il Governo italiano a proporre un rafforzamento della responsabilità degli Stati di bandiera delle navi umanitarie, proposta che ha trovato un riflesso in una Raccomandazione della Commissione europea adottata il 23 settembre 2020 (Raccomandazione (UE) 2020/1365 della Commissione del 23 settembre 2020 sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso). Come si evince anche da questa Raccomandazione, lo Stato di bandiera ha una responsabilità relativa al controllo dei requisiti ai fini della registrazione delle navi, ma che in alcun modo altera l’applicazione dell’obbligo sulla ricerca e soccorso in mare, né può essere intesa come regola prevalente rispetto ad essa (si veda per i profili relativi ai poteri di indagine sulle navi umanitarie la sentenza della CGUE nel caso Sea Watch, C-14/21 del 1° agosto 2022, ECLI:EU:C:2022:604).
Argomento decisivo nella narrativa governativa è la circostanza che una nave in acque internazionali è considerata territorio dello Stato di bandiera (si v. in Italia chiaramente l’art. 4 del Codice della navigazione). Tuttavia, è di tutta evidenza che il “territorio della nave” non può consentire l’assolvimento di tutte le funzioni esercitabili da uno Stato, come quelle relative all’accertamento degli status, quale è la registrazione delle domande di asilo e l’avvio delle connesse procedure, per le quali vi sono in tutti gli Stati membri autorità all’uopo designate: gli Stati dovrebbero modificare la propria legislazione e conferire tale competenza al Capitano di una nave, con tutti i problemi organizzativi connessi. In ogni caso, la posizione del Governo italiano è isolata non solo nel panorama europeo, ma anche in quello internazionale. Non esiste alcuno Stato al mondo che consenta alle persone salvate in acque internazionali di chiedere asilo nella nave. E non esiste perché gli Stati hanno ostinatamente contrastato qualsiasi prassi volta a richiedere asilo al di fuori del territorio statale, sia in una nave in acque internazionali, sia in una rappresentanza diplomatica in uno Stato straniero. Situazioni diverse ma sempre implicanti la giurisdizione di uno Stato e la possibilità di collegarvi una richiesta di protezione. L’affermazione della regola sostenuta dal Governo italiano potrebbe in effetti scaturire effetti di grande apertura in relazione alla possibilità di presentare domande di protezione internazionale prima dell’ingresso nel territorio statale ed è anche questa una ragione per la quale è altamente improbabile che gli altri Stati membri dell’Unione l’accettino.
4. La possibilità e non l’obbligo di presentare domanda di asilo tramite il capitano di una nave
In mancanza di una regola di tal fatta, rimane la possibilità che uno Stato consenta al capitano delle navi che battono la propria bandiera di ricevere le domande di protezione internazionale: una possibilità che rientra nell’ampia discrezionalità che caratterizza la libertà degli Stati di ammettere e allontanare gli Stranieri dal e nel proprio territorio, salvo il rispetto dei diritti umani rilevanti. Nel caso che ciò avvenisse, si tratterebbe di una scelta discrezionale dello Stato e non dell’osservanza di un obbligo che, appunto, non esiste. In tale caso si potrebbe anche prospettare il radicamento della competenza di quello Stato di bandiera in base al regolamento Dublino, attraverso una modifica della disciplina delle procedure nazionali sulla presentazione delle domande di protezione internazionale. Tuttavia, anche in tale futuribile circostanza, la regola relativa all’obbligo di ricerca e soccorso in mare e di sbarco nel porto sicuro più vicino dovrebbe sempre essere rispettata: la presentazione di una domanda di protezione internazionale in una nave non potrebbe determinare l’aggiramento della regola consuetudinaria dell’obbligo di ricerca, soccorso e sbarco nel porto sicuro più vicino. Per essere ancora più concreti, nella remota ipotesi che una domanda di protezione fosse presentata al capitano di una nave battente bandiera tedesca, l’Italia, se richiesta ed individuata come il porto sicuro più vicino, dovrebbe comunque consentire lo sbarco delle persone e poi, in caso di presentazione della domanda di protezione anche in Italia, invocare l’applicazione dell’art. 13 del regolamento Dublino nei confronti della Germania come Stato di primo ingresso irregolare. Le operazioni di ricerca e soccorso, infatti, si concludono necessariamente con lo sbarco delle persone nel porto sicuro e non con il loro salvataggio (si veda l’appello dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione). Potrebbe ancora l’Italia sostenere la propria tesi con tutti gli strumenti giuridici e diplomatici esistenti, anche intervenendo in giudizi nazionali e invocando un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sul punto. Trattandosi infatti di una regola inesistente, la recente prassi del Governo italiano potrebbe essere intesa come volta ad introdurre una modifica del quadro giuridico vigente, con l’affermazione di una regola nuova. Il Governo potrebbe anche ambire a modificare la regola della ricerca e del soccorso in mare, oltre che l’interpretazione dell’art. 13 del regolamento Dublino. Tuttavia, fino a quando le regole non saranno cambiate e nuove regole non saranno affermate, prassi difformi costituiscono una violazione delle regole esistenti. Una delle tante violazioni compiute dagli Stati in un contesto internazionale caratterizzato dalla debolezza delle organizzazioni internazionali, ma che stride con la illustre tradizione democratica e diplomatica dell’Italia.