Il 2 dicembre 2021 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha ufficialmente chiuso la procedura di supervisione sull’attuazione della sentenza Khlaifia c. Italia della Corte europea dei diritti umani. ASGI, A Buon Diritto e CILD ritengono che la decisione del Comitato dei Ministri sia in contrasto con la tutela dei diritti delle persone che dal 2011 ad oggi sono transitate negli hotspot italiani e invitano la società civile a non abbassare la guardia.
Il 15 dicembre 2016 la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Khlaifia c. Italia, ha riscontrato la violazione da parte dell’Italia dell’art. 5 Cedu, commi 1, 2 e 4[1] in relazione al trattenimento privo di base legale e di garanzie di tre cittadini tunisini trattenuti nel 2011, dapprima presso il Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) di Contrada Imbriacola (oggi hotspot) a Lampedusa, e poi a bordo delle navi Vincent e Audacia. Inoltre riscontrava la violazione dell’art. 13 Cedu[2], con riferimento all’art. 3 Cedu [3], in ragione dell’assenza di una procedura per poter presentare doglianze relative alle condizioni del trattenimento.
Una sentenza tristemente ancora attuale, se si considera che ancora oggi non è prevista una convalida davanti ad un giudice per il trattenimento in hotspot e che non esistono rimedi giurisdizionali specifici – contrariamente a quanto avviene per chi è detenuto in carcere – per poter contestare le condizioni di vita in tali centri.
Per capire l’attualità della sentenza Khlaifia c. Italia, basti pensare alla tragica morte di Wissem Abdel Latif, prima trattenuto all’interno dell’hotspot di Lampedusa in assenza di informativa legale e nell’impossibilità di presentare richiesta di protezione internazionale, in una condizione di fortissimo isolamento, poi trasferito su una nave “quarantena” fino al trattenimento in CPR, funzionale all’allontanamento, senza soluzione di continuità.
Questa volta le conseguenze sono state ancora più drammatiche rispetto alle testimonianze raccolte negli anni dalle organizzazioni della società civile su questo tipo di procedure, che comportano illegittimi allontanamenti dal territorio e negazione del diritto alla libertà di movimento. Wissem è, infatti, morto in stato di contenzione, dopo più di un mese di illegittimo trattenimento, proprio mentre il Giudice di pace di Siracusa annullava il decreto di respingimento emesso nei suoi confronti alla luce del mancato accesso all’esercizio del diritto di asilo in frontiera.
Dunque, la totale assenza di diritti e garanzie negli hotspot è ancora attuale. Ciò nonostante, il Consiglio d’Europa, nella riunione dello scorso 2 dicembre ha sorprendentemente deciso la chiusura della procedura di esecuzione della sentenza Khlaifia c. Italia.
Seppur mantenendo il monito nei confronti delle autorità italiane a tenere in adeguata considerazione le preoccupazioni espresse dalla società civile, il Comitato dei Ministri ha sottolineato l’importanza di un continuo dialogo con quest’ultima e con il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, affinché si adottino tutte le misure necessarie per garantire una rigorosa e coerente applicazione del nuovo quadro giuridico.
Una decisione di natura politica (il Comitato è espressione dei Governi degli Stati che compongono il Consiglio d’Europa e non un organo giurisdizionale) ma senza alcuna base giuridica.
Lo Stato italiano continua infatti a non prevedere diritti e garanzie nel sistema hotspot, come puntualmente denunciato dalla società civile in questo procedimento. Con questo risultato, a cinque anni dalla condanna della Corte EDU, si avalla l’applicazione dell’approccio hotspot caratterizzato dalla privazione indebita della libertà personale, funzionale a impedire anche l’accesso alla richiesta di protezione internazionale. Quest’ultimo avviene spesso in base alla nazionalità dei e delle migranti, tramite una selezione immediata e arbitraria tra chi può chiedere asilo e chi no, portando così ad un rapido allontanamento dal territorio nazionale in maniera illegittima. E questa posizione del Comitato desta forti preoccupazioni alla luce del fatto che lo Stato italiano continua a non prevedere diritti e garanzie nel sistema hotspot, come puntualmente denunciato dalla società civile .
Quello che il Comitato non dice ma sembra lasciare intendere è che, su questo argomento, ormai tutto è sostanzialmente lecito e non c’è alcuna volontà di interrompere questo processo di criminalizzazione e repulsione verso lo straniero: le proposte contenute nel Patto europeo su migrazione e asilo della Commissione UE ne sono un esempio lampante.
Bisogna quindi continuare a raccogliere le testimonianze delle persone migranti, a denunciare le condizioni del trattenimento per pretendere un superamento della detenzione amministrativa e, nelle more, avere garanzie per chi è detenuto in hotspot, in CPR e negli altri luoghi della detenzione amministrativa almeno pari a quelle previste per la detenzione in carcere.
[1]«Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: (a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente; (b) se si trova in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale o allo scopo di garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge; (c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso; (d) se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa allo scopo di sorvegliare la sua educazione oppure della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente; (e) se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo; (f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione. Ogni persona arrestata deve essere informata, al più presto e in una lingua a lei comprensibile, dei motivi dell’arresto e di ogni accusa formulata a suo carico (…). Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso a un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima.»
[2]«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»
[3] «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»