Edilizia residenziale pubblica: illegittimo il requisito della residenza decennale per i cittadini extra-UE

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La Corte Costituzionale con sentenza 106/18 ha dichiarato l’incostituzionalità della Legge regionale della Liguria nella parte in cui richiedeva, per i soli cittadini provenienti da paesi terzi, il requisito della residenza decennale sul territorio nazionale ai fini dell’accesso all’edilizia residenziale pubblica.

A pochi mesi dal suo insediamento la nuova maggioranza di centro-destra della Regione Liguria aveva modificato l’articolo 5, comma 1, lettera a) della L.R. 10/2004 sostituendo il requisito ivi previsto per gli stranieri ai fini dell’accesso agli alloggi ERP (permesso di lungo periodo o permesso biennale unito alla attività lavorativa) con il requisito, anch’esso previsto per i soli stranieri, di residenza sul territorio nazionale per almeno 10 anni.

Il governo (dell’epoca) aveva impugnato la norma con ricorso dell’8.8.17 facendo valere l’incostituzionalità della novella legislativa.

Stante il tenore della modifica, il giudizio ha finito per incentrarsi sulla violazione dell’art. 11 direttiva 2003/109 secondo il quale il soggiornante di lungo periodo “gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda …le procedure per l’ottenimento dell’alloggio”. La direttiva non prevede che gli Stati membri possano porre limiti a questa prescrizione paritaria, salva solo la possibilità di richiedere “la residenza abituale” nel territorio, che peraltro è già garantita da permesso di lungo periodo.

Nel nuovo assetto regionale ligure tale parità di trattamento era invece stata travolta dalla nuova disposizione perché il soggiornante di lungo periodo avrebbe dovuto dimostrare, a differenza del cittadino italiano, il requisito di regolare residenza decennale sul territorio nazionale. “E ciò –  conclude subito la Corte – ne innesca il manifesto contrasto con le richiamate disposizioni della direttiva 2003/109/CE, come recepita dal d.lgs. n. 3 del 2007 e, per relationem, con l’art. 117, primo comma, Cost.”.

La sentenza avrebbe potuto chiudersi qui, anche se del contrasto con la direttiva finiscono per beneficiare anche i non lungosoggiornanti: come precisato al punto 4 della sentenza la dichiarazione di incostituzionalità fa infatti rivivere la norma regionale nel testo originario che, come si è visto, consentiva l’accesso non solo ai lungosoggiornanti, ma anche anche ai titolari di permesso biennale unito alla attività lavorativa, conformemente alla previsione dell’art. 40, comma 6, TU immigrazione. D’altra parte l’eccezione era formulata proprio con riferimento alla violazione della direttiva (e dunque dell’art. 117 Cost.) sicché l’accertamento di tale violazione avrebbe potuto chiudere il discorso.

Ma la Corte non si ferma qui e dal punto 3.3. torna per l’ennesima volta sul tema della “ragionevolezza” della misura del requisito, che sembrerebbe invece essere sovrabbondante: se il requisito in questione è vietato da una direttiva UE perché fa venir meno la parità di trattamento è evidentemente inutile verificarne il grado di ragionevolezza, visto che anche una differenza “ragionevole” non potrebbe comunque derogare alle prescrizioni dell’Unione. Può darsi che tale eccesso di motivazione sia dovuto proprio alla consapevolezza che la decisione avrebbe rimesso in gioco anche i non-lungosoggiornanti (per i motivi appena detti) ma non pare possa essere questa la spiegazione, sia perché la Corte non la esplicita, sia – soprattutto – perché la dichiarazione di incostituzionalità è infine decisa per contrasto con l’art. 117 Cost. “in relazione agi invocati parametri interposti”, norma che non può avere nulla a che vedere con soggetti come i titolari di permesso biennale che non sono protetti, sul punto, da alcuna direttiva dell’Unione.

Questo sovrapporsi di motivazioni, l’una afferente la violazione della direttiva, l’altra afferente l’irragionevolezza della “entità” del requisito decennale, rischia anche di scolorire la differenza tra i casi in cui un requisito di lungo residenza è richiesto sia  agli italiani che agli stranieri e i casi in cui il requisito è richiesto ai soli stranieri: tanto è vero che la Corte richiama il proprio precedente relativo alla Val d’Aosta (168/14) ove il requisito di 8 anni era previsto per la generalità dei richiedenti, a differenza di  quello qui in esame che, come detto, è richiesto ai soli stranieri.

Nel primo caso viene effettivamente in questione un problema di “entità” del requisito sotto il profilo della discriminazione indiretta (essendo un requisito di lungo-residenza più facilmente conseguibile dagli italiani) tanto è vero che al punto 3.4. della sentenza la Corte ricorda che la mancanza del requisito di proporzionalità si risolve in una “forma dissimulata di discriminazione nei confronti degli extracomunitari”.

Nel secondo caso invece la discriminazione non è affatto “dissimulata” e risulta per ciò solo irragionevole non essendoci alcun motivo per il quale il requisito del “radicamento” possa essere richiesto ai soli stranieri e non agli italiani. Tanto è vero che la Corte ha in passato sempre dichiarato incostituzionali le norme che prevedevano requisiti di lungo-residenza previsti per i soli stranieri senza necessità di alcuna argomentazione sulla misura del requisito e anche quando si trattava di requisiti di gran lunga inferiori ai 10 anni (5 anni nelle sentenze 2/2013, 133/2013, 172/2013; 36 mesi nella sentenza 40/2011 e persino 1 anno nella sentenza 2/2013).

Sorprende dunque che la Corte richiami la propria precedente giurisprudenza come se la stessa avesse ammesso “un tale più incisivo radicamento territoriale, richiesto ai cittadini di paesi terzi ai fini dell’accesso alle prestazioni in questione” purché “contenuto entro limiti non arbitrari e irragionevoli”: laddove invece il “requisito richiesto ai cittadini di paesi terzi”, purché richiesto solo a loro, è sempre stato dichiarato incostituzionale senza necessità di ulteriori esami. Basti in proposito richiamare le motivazioni di una delle sentenze sopra citate (la 133/13) richiamate peraltro anche nelle altre : “In tema di accesso degli stranieri alle prestazioni di assistenza sociale, mentre la residenza costituisce, rispetto ad una provvidenza regionale, «un criterio non irragionevole per l’attribuzione del beneficio» (sentenza n. 432 del 2005), non altrettanto può dirsi quanto alla previsione di un requisito differenziale basato sulla residenza protratta per un predeterminato e significativo periodo minimo di tempo (nella specie, quinquennale). La previsione di un simile requisito, infatti, non risulta rispettosa dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto «introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari», non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che costituiscono il presupposto di fruibilità delle provvidenze in questione (sentenza n. 40 del 2011). Non è, infatti, possibile presumere, in termini assoluti, che gli stranieri immigrati nel territorio regionale o provinciale «da meno di cinque anni, ma pur sempre ivi stabilmente residenti o dimoranti, versino in stato di bisogno minore rispetto a chi vi risiede o dimora da più anni» (sentenza n. 2 del 2013; in prospettiva similare, sentenza n. 4 del 2013)”.

La Corte avrebbe dunque potuto arrestarsi alla semplice constatazione che il requisito, oltre a violare il diritto alla parità di trattamento dei lungosoggiornanti, differenziava illegittimamente italiani e stranieri, indipendentemente da qualsiasi argomentazione circa l’entità del requisito: d’altra parte l’assoluta assurdità della pretesa regionale (perché mai la Regione dovrebbe considerare rilevante la durata della permanenza nel territorio nazionale, e per di più di tale entità?) invogliava sicuramente ad argomentare anche in punto di ragionevolezza; ma ciò non vuol dire che un requisito più ridotto possa in futuro passare il vaglio della Corte.

Dunque l’ennesimo tentativo, tutto ideologico, di introdurre norme al grido di “prima i nostri” non ha superato il vaglio di costituzionalità.

La sentenza

A cura di Alberto Guariso – servizio antidiscriminazione ASGI


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