Il commento all’ordinanza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 27 settembre 2018, C-422/18.
di Francesca Capotorti
Magistrato ordinario in tirocinio presso il Tribunale di Milano e dottore di ricerca in diritto dell’Unione europea
La Corte di giustizia, che è stata chiamata a pronunciarsi sul diritto ad un ricorso effettivo in materia di protezione internazionale dal Tribunale di Milano, ha affermato, con ordinanza del 27 settembre 2018, la compatibilità con il diritto dell’Unione europea delle modifiche apportate dal decreto-legge 13/2017 (convertito nella legge 46/2017) al d.lgs 25/2008. Tale provvedimento ha privato dell’effetto sospensivo automatico il mezzo di impugnazione avverso la decisione di rigetto della domanda di protezione internazionale in primo grado, demandando al medesimo giudice che ha pronunciato il decreto negativo di sospendere l’efficacia esecutiva della decisione della Commissione, «quando sussistono fondati motivi» (art. 35-bis, comma 13).
Prima di esaminare più nel dettaglio il contenuto della pronuncia, è bene evidenziare che il giudice di Lussemburgo ha risposto ai quesiti del Tribunale di Milano [1] con ordinanza motivata. Si tratta di una forma che la Corte può scegliere di utilizzare, ai sensi dell’art. 99 del regolamento di procedura, «quando una questione pregiudiziale è identica a una questione sulla quale la Corte ha già statuito»; nel caso di specie, si è fatto riferimento alla sentenza X e Y del 26 settembre 2018 [2]. Lungi dal costituire un’ininfluente indicazione stilistica, la forma di statuizione prescelta già preannuncia il contenuto della pronuncia in commento, che, nel richiamare in toto la sentenza appena citata, lascia irrisolta più di una questione.
La Corte, infatti, per rispondere ai quesiti sollevati dal giudice del rinvio, parte dal medesimo presupposto della sentenza X e Y, ossia che nessuna delle disposizioni della direttiva 2013/32 [3], cd. “Direttiva procedure”, impone agli Stati membri di riconoscere ai richiedenti protezione internazionale il diritto di proporre appello avverso la decisione giurisdizionale di rigetto della loro domanda in primo grado, né, a maggior ragione, un suo effetto sospensivo automatico. Neanche la struttura generale o le finalità della direttiva, peraltro, permettono di dedurre un obbligo siffatto, tenuto conto che il principio di effettività del ricorso di cui all’art. 46, par. 3, della direttiva, si riferisce esclusivamente al primo grado di giudizio. L’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali, letto alla luce delle garanzie sancite da quest’ultima agli artt. 18 e 19, par. 2, peraltro, richiede «unicamente che sia possibile esperire un ricorso dinanzi a un’autorità giurisdizionale» (punto 36).
Poiché la tutela conferita dalle disposizioni della direttiva 2013/32 avverso una decisione che respinge una domanda di protezione internazionale si limita all’esistenza di un unico mezzo di ricorso giurisdizionale, l’introduzione di un ulteriore grado di giudizio e la scelta di dotarlo, se del caso, di effetto sospensivo automatico, come anche l’introduzione di un procedimento cautelare diretto a sospendere l’esecuzione della decisione di rigetto, rientrano nell’ambito dell’autonomia procedurale degli Stati membri. Il giudice dell’Unione, tuttavia, riconosce che le disposizioni nazionali devono rispettare i principi di equivalenza e di effettività, in virtù dei quali le modalità procedurali dei ricorsi volti a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, da un lato, non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di diritto interno, dall’altro, non devono rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento Ue.
Quanto all’applicazione al caso di specie del principio di equivalenza, la Corte, con una formula ormai consolidata, si limita a demandare al giudice nazionale, il quale «dispone di una conoscenza diretta delle modalità processuali applicabili», il compito di «verificare la somiglianza tra i ricorsi di cui trattasi quanto a oggetto, causa ed elementi essenziali» (punto 44).
Con riferimento, invece, al principio di effettività, dopo aver ricordato che questo non determina obblighi che vadano al di là di quelli derivanti dal diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva garantito dalla Carta dei diritti fondamentali, giunge alla conclusione che il principio in questione, nel caso oggetto di esame, non può considerarsi violato, «dato che il diritto dell’Unione esige soltanto, in materia di protezione internazionale, l’esistenza di un mezzo di ricorso giurisdizionale» (punto 46).
Alla luce di queste osservazioni, la Corte di giustizia esclude, dunque, che il diritto dell’Unione osti alle regole ora vigenti nell’ordinamento italiano.
Ebbene, come si è anticipato, il ragionamento del giudice dell’Ue si espone ad alcune notazioni critiche. Innanzitutto la forma che si è ritenuto di adottare presupponeva che le due questioni pregiudiziali fossero identiche, mentre, a ben vedere, non lo erano; l’aver assimilato le due questioni ha fatto poi sì che la Corte non rispondesse con la necessaria attenzione a tutti i quesiti proposti dal giudice italiano.
Si osservi, al riguardo, che i giudici olandesi chiedevano alla Corte di Lussemburgo unicamente se le procedure di ricorso in appello previste dal diritto nazionale avverso decisioni che respingono domande di asilo e che contengono un obbligo di rimpatrio, dovessero comportare un effetto sospensivo automatico, qualora fosse invocato il diritto al non respingimento.
Il Tribunale di Milano, invece, oltre ad aver interrogato la Corte sulla necessità di prevedere nel sistema nazionale un siffatto effetto sospensivo automatico, la sollecitava altresì a verificare la compatibilità della procedura prevista dal d.lgs 25/2008, come modificato dal decreto-legge 13/2017, con i principi di equivalenza ed effettività della tutela giurisdizionale, sotto molteplici aspetti specificamente individuati. Come già accennato, la normativa nazionale richiede all’autorità giudiziaria di subordinare la sospensione della decisione di rigetto in primo grado solo alla verifica della sussistenza di “fondati motivi”, vale a dire della fondatezza del ricorso in Cassazione, e non al rischio di un danno grave e irreparabile per il ricorrente. Inoltre la valutazione di fondatezza dell’impugnazione è demandata al medesimo giudice che in primo grado ha già rigettato il ricorso.
Al riguardo, il giudice del rinvio, ancorché consapevole del fatto che la previsione di un doppio grado di giudizio, sia nell’an che nel modus, rientra nell’autonomia procedurale degli Stati membri alla luce dei precedenti della Corte [4], evidenziava, in particolare, il rischio di una violazione del principio di effettività, dato dal fatto che, in caso di rimpatrio prima della statuizione definitiva, viene minato il diritto alla difesa dello straniero, nonché, in definitiva, la stessa utilità della decisione a questo favorevole, in ragione delle difficoltà che comporta, anche in relazione ai costi elevati del viaggio, il rientro da Paesi d’origine anche molto lontani.
Sotto quest’ultimo profilo, sebbene, nel caso di specie, non venisse direttamente in rilievo la cd. direttiva “rimpatri” [5], il giudice del rinvio aveva ben evidenziato il concreto pericolo di espulsione dello straniero, anche verso Paesi in cui sussiste il rischio che quest’ultimo subisca trattamenti inumani o degradanti. In questo contesto sarebbe stato interessante verificare il ruolo del principio di non refoulement (o divieto di respingimento) sancito dagli artt. 33 Cedu e 19, par. 2, Carta di Nizza, nello stabilire se debba essere garantito al richiedente il diritto di soggiorno fino all’esito di una decisione definitiva.
Nella sentenza Abdida del 2014 [6], infatti, sebbene il diritto derivato (in quel caso l’art. 13 della direttiva “rimpatri”) non prevedesse l’effetto sospensivo del ricorso avverso una decisione di rimpatrio, la Corte di giustizia, proprio partendo dal presupposto che le caratteristiche di tale ricorso devono essere determinate conformemente agli artt. 47 e 19, par. 2, Carta [7], letti alla luce delle indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo [8], era giunta alla conclusione che l’effettività del ricorso impone che lo straniero disponga di un ricorso con effetto sospensivo ex lege, in casi «caratterizzati dalla gravità e dall’irreparabilità del pregiudizio derivante dall’allontanamento (…) verso un paese in cui esiste un serio rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti» (punto 50).
Proprio in applicazione del principio di non refoulement, inoltre, nella sentenza Tall del 2015 [9], la Corte di giustizia aveva riconosciuto che il ricorso giurisdizionale deve avere effetti sospensivi ex lege, anche nelle ipotesi prescritte dall’art. 46, par. 6, della direttiva 2013/32 (non oggetto di sospensione automatica), ogniqualvolta la decisione di rigetto impugnata sia in grado di esporre il ricorrente ad un rischio di trattamento contrario all’art. 3 Cedu.
Nell’ordinanza oggetto di analisi, invece, i giudici del Kirchberg non affrontano in alcun modo la problematica, limitandosi ad escludere una violazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva, posto che la direttiva, così come i sopra citati articoli della Carta, non impongono agli Stati membri l’esistenza di un doppio grado di giudizio, conferendo unicamente il diritto di adire il giudice [10].
Si tratta, in effetti, del punto più critico della pronuncia. Non si condivide, infatti, il pensiero della Corte laddove, per vero semplicisticamente, richiamando sul punto la sentenza X e Y, àncora il rispetto del principio di effettività della tutela di cui all’art. 47 Carta unicamente all’art. 13 Cedu e all’interpretazione che ne ha dato la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 5 luglio 2016, A. M. c. Paesi Bassi [11]. Il giudice dell’Unione trascura così che il principio di effettività della tutela costituisce non solo un diritto fondamentale garantito dalla Cedu, ma altresì, da sempre, un principio generale proprio delle tradizioni costituzionali comuni agli ordinamenti degli Stati membri, nonché, in definitiva, una delle “pietre angolari” del sistema di tutela approntato dall’Unione, che trova ora fondamento nell’art. 19, par. 1, TUE, ai sensi del quale: «Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione» [12].
Per tale ragione, è evidente che il controllo da parte della Corte di giustizia in merito alla sussistenza di rimedi giurisdizionali effettivi, debba essere quanto mai stringente e non certo appiattirsi su quello effettuato dalla Corte Edu, che, comunque, rappresenta solo uno standard minimo da seguire, come ben esplicitato dall’art. 52, par. 3, ultimo periodo, Carta [13].
Con riguardo all’art. 47 Carta, il Tribunale di Milano chiedeva al giudice dell’Unione di verificare altresì il pericolo di una compromissione dell’indipendenza ed imparzialità dell’organo giudicante nel decidere in merito alla sospensione del decreto, a causa dell’identità, prevista dal d.lgs 25/2008, come modificato dal decreto-legge 13/2017, tra il giudice che ha emesso in primo grado la decisione negativa e l’autorità adita in sede di sospensiva. Appare evidente, infatti, il rischio che la causa non sia esaminata equamente da un giudice indipendente e imparziale, in quanto il medesimo giudice, in seguito al ricorso di impugnazione, si trova a valutare una seconda volta, sia pure sommariamente, la fondatezza della propria precedente decisione.
L’irragionevolezza di una scelta siffatta, secondo l’ordinanza di rinvio, si manifestava anche sotto il profilo del rispetto del principio di equivalenza, in quanto il codice di procedura civile italiano, quando demanda al giudice che si è già pronunciato nel merito di valutare, in sede cautelare, la sospensione del provvedimento pendente il ricorso, fonda la sua valutazione sul rischio di un danno grave ed irreparabile, senza che sia dato rilievo all’elemento della fondatezza del ricorso (così l’art. 373 cpc). Si tratta di una questione che non si era affatto posta nella sentenza X e Y, considerato che nell’ordinamento olandese è il giudice dell’appello e non quello di primo grado ad essere designato giudice cautelare, cosicché anche a siffatti interrogativi l’ordinanza della Corte di Lussemburgo non ha fornito risposta.
Esprimendosi unicamente con riguardo al principio di equivalenza, i giudici del Kirchberg si sono limitati a demandare al giudice nazionale ogni verifica circa la comparabilità delle diverse situazioni, senza minimamente tenere in conto i ragguagli già forniti dal Tribunale di Milano, che individuava chiaramente l’art. 373 cpc quale termine di comparazione, a differenza dell’ordinanza di rinvio nella causa X e Y, che, a detta della Corte, non conteneva alcun elemento che consentisse di valutare se gli appelli proposti in materia di protezione internazionale fossero comparabili con altri previsti dal diritto nazionale [14].
Ebbene, la risposta oltremodo “sbrigativa” della Corte, tale da mettere a repentaglio il principio di leale collaborazione tra i giudici dell’Unione, non convince soprattutto quanto al modus operandi. La Corte, infatti, facendo prevalere la forma sulla sostanza, si è arrestata a considerazioni generiche circa la sussistenza o meno del diritto al ricorso, senza andare a indagare in concreto se il sistema italiano assicuri o meno un’effettiva difesa.
L’effetto è quello di ridurre, a livello sovranazionale, la portata del diritto ad un ricorso effettivo in una materia estremamente sensibile, quale quella del diritto d’asilo, che si caratterizza per il fatto che solo per mezzo dello strumento processuale il richiedente la protezione smette di essere tale, per vedersi attribuire uno status di diritto sostanziale [15].
Tuttavia, benché si sia persa «l’occasione per la Corte di fornire un nuovo contributo al diritto a un ricorso effettivo in materia di asilo» [16], l’affermazione della Corte stessa in merito alla necessità di verificare il rispetto del principio di equivalenza, potrebbe fornire uno spunto utile ai giudici nazionali.
Al riguardo, ci si potrebbe innanzitutto interrogare in merito alla possibilità per il giudice del rinvio, una volta accertata la violazione del principio di equivalenza, di disapplicare l’art. 35-bis, d.lgs 25/2008, nella parte in cui prevede la valutazione circa la sussistenza dei fondati motivi, per applicare anche ai ricorsi in materia di protezione internazionale la norma processuale interna che si occupa di ricorsi analoghi, più favorevole.
Si tratta di una questione complessa, che merita una riflessione più approfondita. In questa sede, basti solamente evidenziare che, laddove il giudice nazionale, approfittando della laconicità dell’ordinanza della Corte sul punto, decidesse di intraprendere questa strada ermeneutica, sarebbe chiamato a legittimarla con un percorso motivazionale alquanto complesso. In linea generale, infatti, è configurabile in ogni caso un obbligo per il giudice nazionale, quale giudice dell’Unione, di verificare il rispetto del principio di equivalenza; d’altro canto, l’ordinanza oggetto di analisi, discostandosi in questo senso da altri precedenti [17], non gli fornisce alcuna indicazione su come procedere nell’operazione consequenziale, vale a dire l’individuazione e la valutazione della norma nazionale più favorevole al ricorrente relativa ai ricorsi analoghi, che – come è noto – deve essere esaminata «tenendo conto del ruolo delle norme interessate nell’insieme del procedimento, dello svolgimento del procedimento medesimo e delle peculiarità di dette norme, dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali» [18].
Il giudice nazionale dovrebbe, allora, sciogliere in via autonoma il dubbio che aveva giustificato il rinvio pregiudiziale e che non è stato chiarito sotto questo profilo dalla Corte; a tal fine, non avrebbe altra scelta che applicare l’art. 373 cpc, così andando a valutare il grave ed irreparabile danno, in luogo della fondatezza dei motivi del ricorso. Bisogna però considerare che la violazione del principio di equivalenza non è correlata in maniera biunivoca alla prescrizione normativa di valutare il fumus (invero prevista in numerose norme del codice di procedura civile, anche con riguardo alle impugnazioni), ma al fatto che questo compito è affidato al medesimo giudice che si è già pronunciato in primo grado. È evidente, peraltro, che il giudice di primo grado, mai potrebbe, all’esito della disapplicazione, demandare di propria iniziativa al giudice superiore la valutazione in merito alla sospensione.
A fronte della delicatezza della scelta di disapplicare, potrebbe esser più opportuno per il giudice nazionale optare prioritariamente per un’altra strada, cioè quella di stimolare un controllo accentrato sull’art. 35-bis, d.lgs 25/2008, da parte del nostro giudice dei diritti fondamentali. Sul punto si osservi che, in effetti, il giudice dell’Unione, nel demandare il controllo in merito al principio di equivalenza interamente al giudice del rinvio, pur in presenza degli elementi di raffronto che gli avrebbero consentito di pronunciarsi, sembra volergli indicare che si tratta di una questione che interessa innanzitutto il diritto nazionale.
Stando così le cose, il sistema di tutela multilivello dei diritti fondamentali permette di ipotizzare una rimessione alla Corte costituzionale per vagliare la compatibilità di siffatto sistema con gli artt. 11 e 117 Cost., che impongono il rispetto del principio di equivalenza, quale principio di diritto Ue, oltre che degli artt. 3, 24 e 111, comma 2, Cost., letti anche alla luce dell’art. 6 Cedu.
Al riguardo, non può non rilevarsi che la previsione secondo cui, ai fini della concessione della sospensiva, il medesimo giudice che ha emesso il decreto di rigetto in primo grado valuta la fondatezza del ricorso in Cassazione avverso tale decreto, costituisce un unicumnel panorama nazionale. Nel nostro codice di procedura civile, infatti, oltre al già citato art. 373 cpc, la sospensione di una sentenza immediatamente esecutiva è regolata anche dall’art. 283 cpc, ai sensi del quale è il giudice dell’appello a pronunciarsi sulla sospensione della sentenza di primo grado, «quando sussistono gravi e fondati motivi». Ebbene, la differenza tra le due fattispecie risiede nel fatto che l’art. 373 cpc affida la decisione sulla sospensione allo stesso giudice di merito che ha emesso la sentenza impugnata per Cassazione, per cui il legislatore ha correttamente ritenuto incongruo richiedere a quel giudice di esprimersi, sia pure a livello di sommaria delibazione, sulla fondatezza dell’impugnazione proposta contro la sua sentenza. Ed invero, la situazione da ultimo prospettata, è suscettibile di arrecare un vulnus al diritto di accesso ad un giudice terzo e imparziale, in quanto la decisione potrebbe apparire condizionata dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa, scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda.
A ciò si aggiunga che, tenuto conto dell’ambito di applicazione generalizzato dell’art. 373 cpc, non si rinvengono elementi atti a distinguere, oltre che sotto il profilo dell’equivalenza, anche sul piano della ragionevolezza, la situazione del richiedente asilo che impugni una decisione idonea a costituire titolo per l’esecuzione dell’espulsione dello straniero dal territorio italiano, rispetto a quella del cittadino che impugni una sentenza di appello dal titolo e dall’oggetto tra i più disparati, anch’essa provvisoriamente esecutiva.
Stando così le cose, sarebbe, dunque, auspicabile sollecitare un intervento del giudice delle leggi, volto a verificare il rispetto, da parte delle modifiche da ultimo apportate al d.lgs 25/2008, della nostra Carta fondamentale.
[1] Per un’analisi più approfondita dell’ordinanza si rinvia a A. Adinolfi, Diritto dell’Ue e soggiorno del richiedente protezione internazionale in attesa dell’esito del ricorso in Cassazione
[2] Come si evince dalla decisione di sospendere il procedimento ex art. 55, par. 1, sub b), Reg. CG, fino alla pronuncia della sentenza nelle cause C-175/17 e C-180/17.
[3] Direttiva del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale.
[4] Vds., in particolare, la sentenza del 28 luglio 2011, Samba Diouf, causa C-69/10, sia pure relativa alla precedente direttiva 2005/85. Sotto questo profilo la Corte, aderendo all’interpretazione dell’AG Bot, non pare aver accolto l’input proveniente dalle conclusioni dell’avvocato generale Mengozzi presentate il 17 maggio 2018, nella causa C 585/16, Serin Alheto, secondo cui l’art. 46 della direttiva 2013/32 «traduce un mutamento di prospettiva, che riflette peraltro il diverso livello di armonizzazione dei due atti».
[5] Direttiva 2008/115 del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
[6] Sentenza del 18 dicembre 2014, causa C-562/13.
[7] Punti 45-47.
[8] Sentenza del 26 aprile 2007, Gebremedhin c. Francia, punto 67; del 23 febbraio 2012 Hirsi Jamaa e a. c. Italia, punto 200.
[9] Sentenza del 17 dicembre 2015, causa C-239/14.
[10] Sentenza Samba Diouf cit., punto 69.
[11] Cfr. sentenza X e Y, punto 43, e punti 30-32. Al punto 70 della sentenza A. M. c. Paesi Bassi, la Corte Edu ha affermato: «(…) Given that Article 13 does not compel Contracting States to set up a second level of appeal, the Court is satisfied that being able to appeal to the Regional Court of The Hague the applicant had at his disposal a remedy complying with the above two requirements (see § 66 above) for challenging the Minister’s decision to deny him asylum».
[12] Sul rango “costituzionale” dei Trattati nell’ordinamento Ue e sul ruolo emblematico dell’effettività della tutela giurisdizionale nell’Ue, cfr. la sentenza 23 aprile 1986, causa 294/83, Les Verts c. Parlamento europeo, in cui si legge che la CE «è una comunità di diritto, nel senso che né gli Stati membri che ne fanno parte, né le sue istituzioni sono sottratti al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale di base costituita dal trattato» (punto 23); vds. anche la sentenza del 5 febbraio 1963, causa C-26/62, Van Gend en Loos, in cui si afferma che «la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, (…) ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini. Pertanto il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi».
[13] «La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa».
[14] Punto 41.
[15] Vds. C. Favilli, L’Unione che protegge e l’Unione che respinge. Progressi, contraddizioni e paradossi del sistema europeo di asilo, in Questione Giustizia trimestrale, n. 2/2018, p. 33
[16] Conclusioni dell’AG Bot presentate il 24 gennaio 2018, nelle cause C-175/17 e C-180/17, punto 1.
[17] Cfr., a titolo di esempio, le cause C-40/08, C-118/08, e C-161/15, in cui la Corte, pur demandando al giudice nazionale la verifica ultima in merito alla violazione del principio di equivalenza, analizza in modo preciso le disposizioni nazionali relative a ricorsi analoghi e più favorevoli, suscettibili di arrecare un vulnus al principio in questione.
[18] Sentenza X e Y, punto 40
L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica