L’articolo di Salvatore Fachile per Il Manifesto del 28 agosto 2021 chiarisce cosa sono i corridoi umanitari e mette in guardia dalla strumentalizzazione della misura.
Dopo aver preso atto del disastro, si discute dei possibili rimedi e si evocano i corridoi umanitari, attribuendo loro significati e capacità di impatto molto diversi, spesso fantasiosi.
Con il termine corridoi umanitari si intende indicare, almeno in Italia negli ultimi anni, quei progetti autorizzati dallo Stato e condotti da organizzazioni non governative o dall’Alto commissario Onu per i rifugiati (con il similare istituto del resettlement) con cui si è riuscito ad assicurare l’ingresso autorizzato in Italia di cittadini stranieri in fuga dal loro paese di origine e che si trovavano in gran parte in un paese di transito. Un istituto che investe alcune migliaia di persone che vengono scelte sulla base di criteri di opportunità, normalmente basate sul grado di vulnerabilità. Nel quadro di qualsiasi crisi, i corridoi umanitari non hanno mai preteso di rappresentare una soluzione ma neppure uno strumento di intervento che incida significativamente sulla dinamica complessiva. Rappresentano uno mezzo umanitario teso a fornire un importante aiuto a una nicchia ristrettissima di persone, che ovviamente non possono vantare alcun diritto in questo senso ma vengono selezionati dagli organizzatori stessi.
Un atto caritatevole per pochi, non certo uno strumento tecnico o politico che possa influire seriamente in una crisi di enormi dimensioni come quella afghana. Di contro, però, rischia come già accade di essere strumentalizzato nella retorica pubblica, per concentrare l’attenzione su un punto minimale del tutto, per mistificare la realtà, fatta invece di un popolo bloccato che ha pochissime possibilità di sottrarsi alle persecuzioni e quasi nessuna di raggiungere l’Europa.
Difficile uscire dall’Afghanistan ma soprattutto quasi impossibile attraversare le frontiere libiche e turche, che sono bloccate su mandato europeo. Se si ritiene che l’Italia e l’Europa abbiano un dovere di intervento, allora bisogna agire con strumenti finalizzati a garantire il diritto di movimento dei cittadini afghani e non solo con azioni laterali. Oppure si dichiari apertamente di non avere alcun dovere, di non aderire più alla visione universalista emersa dopo la seconda guerra, quantomeno non servirà più a giustificare interventi militari come quelli in Afghanistan. Da anni assistiamo all’umanesimo europeo che degrada inesorabile nell’intervento umanitario e sempre più scivola nella banalità dell’ipocrisia.