Tra asilo costituzionale e integrazione sociale: nuove prospettive di protezione dopo il d.l. n.113/2018

Argomenti:d.l. 113/2018
Tipologia del contenuto:Notizie

Asilo costituzionale ed abrogazione della protezione umanitaria nella decisione della Commissione Territoriale di Bari sulla domanda reiterata di protezione internazionale di un richiedente senegalese proveniente dal Casamance.

di Diana Genovese 
magistrato presso Tribunale di Chieti, ricercatrice Centro Universitario L’altro diritto

L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica.


Commissione Territoriale di Bari, decreto del 17 gennaio 2020


La decisione della Commissione Territoriale per la protezione internazionale di Bari si segnala per un’interessante interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 19 d.lgs n. 286/1998 (Testo Unico Immigrazione, d’ora in avanti, Tui) che ha consentito alla predetta autorità amministrativa di ritenere sussistenti, nella fattispecie sottoposta al suo scrutinio, le condizioni di inespellibilità previste dalla citata norma, tali da giustificare il riconoscimento della protezione speciale di cui all’art. 32, co. 3, d.lgs n. 25/2008 ad un cittadino senegalese proveniente da Casamance. La norma da ultimo citata, novellata per effetto dell’intervento del dl n. 113/2018 (cosiddetto Decreto Sicurezza)1, prevede che nei casi in cui la Commissione Territoriale non accolga la domanda di protezione internazionale e, tuttavia, ricorrano i presupposti di cui all’art. 19, co. 1 e co. 1.1., Tui, la stessa trasmetta gli atti al Questore per il rilascio del permesso per protezione speciale.

Le ipotesi contemplate dell’art. 19, co. 1 e co. 1.1., Tui riguardano, rispettivamente, il cosiddetto divieto di refoulement2 e il divieto di espulsione in caso di rischio di sottoposizione a tortura3. A ben vedere, si tratta di due ipotesi astrattamente corrispondenti alle fattispecie – già previste dal d.lgs n. 251/20074 – di status di rifugiato e di protezione sussidiaria, le quali danno diritto al riconoscimento della protezione internazionale. Ciò nonostante la Commissione Territoriale di Bari sembra ricavare da queste disposizioni, attraverso un’esegesi dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali riconosciuti dalle Convenzioni internazionali, la valvola di sfogodel complesso sistema di asilo, anche recuperando in qualche modo gli effetti dell’abrogata protezione umanitaria di cui al previgente art. 5, co. 6, Tui Tenuto conto dell’abrogazione dell’istituto della protezione umanitaria, avvenuta come è noto per effetto del dl n. 113/2018, il provvedimento in commento della Commissione Territoriale di Bari ha individuato, invero, nell’art. 19 Tui la norma di chiusura del sistema, ovvero “l’unica potenziale forma di residua protezione nei casi pur non contenuti expressis verbis nella normativa oggigiorno vigente”.

L’art. 5, co. 6, Tui prevedeva la possibilità di rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari in presenza di “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.

La protezione speciale di cui all’art. 32, co. 3, d.lgs n. 25/2008 si configura, tuttavia, nel nostro ordinamento con caratteri e regime diversi rispetto al permesso per motivi umanitari. Se, infatti, nel secondo caso i seri motivi di caratteri umanitario costituivano il titolo per rimanere in Italia, la protezione speciale si traduce nel diritto a non essere allontanati dal nostro Paese. Inoltre, il permesso di soggiorno per motivi umanitari aveva la durata di due anni ed era rinnovabile, nonché convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro5 o per motivi familiari6, mentre la nuova protezione sociale ha durata di un anno, non è rinnovabile se non previo parere della Commissione territoriale, e non consente la conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Sino all’entrata in vigore del dl n. 113/2018, l’art. 5, co. 6, Tui costituiva un’essenziale clausola di salvezza, idonea a dare piena attuazione al diritto di asilo costituzionale di cui all’art. 10, co. 3, Cost. Il consolidato orientamento della Corte di Cassazione riteneva, infatti, che il diritto di asilo fosse interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al d.lgs n. 251/2007, e di cui all’art. 5, co. 6, Tui, con la conseguenza che non vi sarebbe stato più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10, co. 3, Cost., in chiave processuale o strumentale, a tutela di chi avesse diritto all’esame della sua domanda di asilo alla stregua delle vigenti norme sulla protezione7.

Tale orientamento ha, di conseguenza, indotto alcuni primi commentatori8 a ravvisare nell’abrogazione del permesso per motivi umanitari un vuoto legislativo rispetto al quale immaginare almeno due possibili soluzioni: da una parte, la diretta applicazione dell’art. 10, co. 3, Cost., già peraltro sperimentata in passato9, dall’altra parte la possibilità di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. b) del dl n. 113/2018, nella parte in cui ha eliminato la possibilità di riconoscere il permesso di soggiorno umanitario “generico”, per violazione (perlomeno) degli artt. 2 e 10, co. 3, Cost. 

Rispetto all’ultima delle due prospettate soluzioni, merita richiamare brevemente alcuni passaggi di una recente sentenza della Corte Costituzionale10, chiamata a decidere una serie di giudizi promossi in via principale da alcune Regioni italiane che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale con riguardo alle modifiche introdotte con il dl n. 113/2018.

Tra le varie censure delle Regioni, vi rientra, in particolare, quella avente ad oggetto la sostituzione del permesso di soggiorno umanitario di carattere generale e atipico con alcune fattispecie tipizzate: a) permessi di soggiorno per «casi speciali» (ipotesi di cui agli artt. 18, 18-bis e 22, co.12-quater, Tui); b) permesso di soggiorno per «cure mediche» (ipotesi di cui all’art. 19, co. 2, lettera d-bis, Tui); c) permesso di soggiorno per calamità (ipotesi di cui all’art. 20-bis, Tui); d) permesso di soggiorno per motivi di particolare valore civile (ipotesi di cui all’art. 42-bis, Tui). Ad avviso delle Regioni ricorrenti, tale sostituzione avrebbe determinato un’illegittima restrizione dell’ambito di applicazione della protezione per motivi umanitari.

Nonostante la Corte Costituzionale abbia respinto tutti i ricorsi promossi dalle Regioni, ritenendoli inammissibili, la motivazione della sentenza offre ai giudici costituzionali l’opportunità di esprimere alcune essenziali considerazioni in ordine all’intervenuta modifica11. Secondo la Corte, in particolare, il mero passaggio da una protezione generale e atipica, quale era quella umanitaria, ad una serie di “casi speciali” non comporta di per sé “una restrizione della protezione complementare contraria a Costituzione12, potendo “l’effettiva portata dei nuovi permessi speciali” essere valutata “solo in fase applicativa, nell’ambito della prassi amministrativa e giurisprudenziale che andrà formandosi, in relazione alle esigenze dei casi concreti e alle singole fattispecie che via via si presenteranno”. Subito dopo tali premesse la Corte Costituzionale, riprendendo quelle che furono le parole del Presidente della Repubblica nell’imminenza dell’emanazione del dl n. 113/2018 nella lettera indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri, tiene a precisare che “l’interpretazione e l’applicazione dei nuovi istituti, in sede sia amministrativa che giudiziale, sono necessariamente tenute al rigoroso rispetto della Costituzione e dei vincoli internazionali, nonostante l’avvenuta abrogazione dell’esplicito riferimento agli «obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» precedentemente contenuto nell’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione”. Si tratta di un chiaro invito rivolto dai Giudici della Corte Costituzionale alle autorità amministrative e giurisdizionali preposte all’interpretazione e applicazione della nuova legge, a tentare un’interpretazione costituzionalmente orientata e rispettosa degli obblighi internazionali vigenti, tale da poter scongiurare “il paventato effetto restrittivo rispetto alla disciplina previgente”.

A tale invito sembra rispondere in qualche modo la Commissione Territoriale di Bari nella decisione del 17 gennaio 2020 in commento.

Nel caso scrutinato dalla Commissione, il richiedente, un cittadino senegalese proveniente da Casamance, dopo aver proposto domanda di protezione internazionale rigettata sia dalla Commissione Territoriale che dal Tribunale in sede di ricorso giurisdizionale, aveva reiterato la domanda di protezione in data 9 maggio 2019. All’esito della seconda audizione il richiedente, oltre a confermare la vicenda esistenziale già esposta, ha offerto in produzione una serie di documenti (quali, un contratto di apprendistato di 24 mesi, un attestato di svolgimento del servizio civile regionale, un attestato ad un corso di addestramento quale soccorritore, un documento di valutazione CPIA, un attesto di addetto a interventi tecnici e agronomici sulle coltivazioni, un attestato di qualifica professionale di addetto agli interventi tecnici e agronomici sulle coltivazioni, un attestato di frequenza ad un corso di formazione lavoratori ad alto rischio) che secondo la Commissione Territoriale dimostrano “un proficuo percorso di integrazione socio-lavorativa nel corso del suo soggiorno nel territorio italiano”.

L’intera motivazione giuridica della decisione si snoda intorno all’esame delle circostanze di cui all’ art. 19 Tui che, all’esito delle modifiche apportate dal dl n. 113/2018, costituiscono – come si è accennato – la necessaria e complementare indagine da compiersi nella valutazione della domanda internazionale.

Nella decisione in esame, i richiami alla normativa internazionale si intersecano con quelli della normativa nazionale rilevante e, in particolare, con le precisazioni contenute nella relazione illustrativa del dl n. 113/2018 ove è fatto salvo “il dovere-potere delle Commissioni Territoriali di valutare l’eventuale sussistenza dei presupposti del principio di non refoulement, in coerenza con il quadro ordinamentale vigente, che demanda alle citate Commissioni il compito di esaminare le singole situazioni dei richiedenti asilo, prendendo in considerazione ogni aspetto della posizione individuale del richiedente, e individuando i profili di rischio in cui il medesimo incorrerebbe in caso di esecuzione del provvedimento di espulsione”. In particolare, il divieto di espulsione di cui all’art. 19 Tui che recepisce il divieto di non refoulment di cui all’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, secondo la Commissione, deve essere letto alla luce della giurisprudenza sovranazionale e, nella specie, di quella della Corte europea dei diritti dell’Uomo secondo cui l’obbligo di non refoulement sarebbe destinato ad accogliere nel suo ambito di applicazione tutte quelle situazioni in cui lo straniero, in caso di rimpatrio, subirebbe una grave violazione dei suoi diritti fondamentali. La Commissione rileva a questo punto la necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 19 Tui, anche richiamando l’orientamento sopra citato secondo cui “la mancata esplicitazione all’interno di atti normativi di rango primario e secondario degli obblighi costituzionali e internazionali” non può determinare un’attenuazione della loro natura sovraordinata e vincolante.

Sulla base di queste premesse la Commissione mette in collegamento l’art. 10, co. 3, Cost. con i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost., lasciando intendere che la protezione complementare di cui all’art. 19 Tui si fonderebbe proprio sulla tutela dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta Costituzionale e dalle Convenzioni internazionali e sull’esigenza di evitare che tali diritti vengano posti nel nulla in caso di rientro nel proprio Paese di origine. A tal proposito, si rammenta che anche nel sistema precedente l’abrogazione della protezione umanitaria, la protezione riconosciuta allo straniero si fondava sul rischio di una grave violazione dei diritti umani. È stato, invero, osservato che la casistica riconducibile all’art. 5, co. 6, Tui “non può prescindere dal presupposto – ricavabile sia dalla denominazione di tale tipo di protezione (“umanitaria” sia dal disposto dell’art 10, co. 3, Cost. – della “grave” (art. 32, co. 3, d.lgs n. 251/2007) violazione dei diritti umani, cui il richiedente sarebbe esposto in casi di rimpatrio13. Tra questi diritti fondamentali – sottolinea la Commissione Territoriale – vi rientra, in particolare l’art. 10, co. 3, Cost. Richiamando la giurisprudenza di legittimità più risalente sul punto14, la Commissione sembrerebbe – con questa linea argomentativa – far rivivere quella portata precettiva del diritto di asilo costituzionale che era stata più recentemente negata dalla Corte di Cassazione all’esito della configurazione del nostro sistema di asilo come risultante dalla previsione dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria. L’abrogazione della protezione umanitaria avrebbe, dunque, l’effetto di espandere i confini dell’art. 19 T.U.I, mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata, che porti a vietare l’allontanamento dello straniero quando tale evenienza possa ledere i suoi diritti fondamentali e quando, in particolare, tale rimpatrio possa costituire di per sé una violazione dell’art. 10, co. 3, Cost.

Come accennato, a tale argomentazione, che domina in pratica quasi l’intero testo della decisione in commento, si affianca un ulteriore e più implicito ragionamento sotteso evidentemente all’esposizione della vicenda di vita attuale del richiedente come riportata dalla stessa Commissione. Guardando, invero, agli elementi fattuali presi in considerazione dalla Commissione ai fini del riconoscimento della protezione speciale, è lecito chiedersi se la Commissione non abbia, in realtà, voluto estendere i confini dell’art. 19 Tui fino a farvi rientrare un caso che – prima del dl n. 118/2018 – avrebbe fondato il riconoscimento della protezione umanitaria per integrazione sociale. L’audizione personale e la (nuova) documentazione prodotta dal richiedente costituiscono, invero, la premessa in base alla quale si snoda l’intero discorso argomentativo della pronuncia in esame che evidentemente presuppone – anche – l’accertamento di un percorso di inclusione socio-lavorativa del richiedente, quali l’esistenza di uno stabile e regolare rapporto di lavoro, la conoscenza della lingua italiana e la partecipazione ad altri corsi e/o attività che ne attesterebbero l’integrazione sociale. Si tratta di un’ipotesi che le Commissioni territoriali e l’elaborazione giurisprudenziale dei Tribunali di merito hanno spesso utilizzato per riconoscere la protezione umanitaria a quanti potessero vantare una situazione di integrazione tale da rendere contrario ai diritti fondamentali il rimpatrio nel proprio Paese di origine. La cosiddetta protezione umanitaria per integrazione sociale, come noto, è stata oggetto di un ampio dibattito giunto fino alla Corte di Cassazione, la quale ha, dal canto suo, inaugurato un orientamento che richiede alle autorità preposte di addentrarsi in una valutazione comparativa “tra il grado di integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale15. Quella della valutazione comparativa, tuttavia, non va immaginata come un nuovo campo di indagine, bensì come una precisazione del generale dovere delle autorità preposte di procedere ad un bilanciamento tra le condizioni del Paese di origine e quelle del Paese di accoglienza, che di per sé è ritenuto insito ad ogni procedimento volto al riconoscimento della protezione internazionale. L’art. 3, co. 3, lett. c). d.lgs n. 251/2007 – non a caso richiamato anche dalla decisione della Commissione Territoriale di Bari – impone, infatti, che l’esame della domanda internazionale avvenga su base individuale, tenendo conto: “della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare la condizione sociale, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave”. Come rilevato dalla decisione in commento, tale norma, sebbene sia prevista nell’ambito dell’esame della domanda di protezione internazionale, informa anche l’indagine da compiere in merito alla sussistenza delle circostanze di cui all’art. 19, co. 1 e co. 1.1., Tui ai fini del riconoscimento della protezione sociale di cui all’art. 32, co. 3, d.lgs n. 25/2008. Va, infine, osservato che la pronuncia della Suprema Corte da ultimo richiamata, laddove rileva la sussistenza di un “nucleo ineliminabile e costitutivo dello stato della dignità della persona” lascia aperta la porta dell’interpretazione alle Commissioni territoriali e ai giudici di merito, affinché individuino tale nucleo nei principi costituzionali e internazionali idonei al riconoscimento della protezione umanitaria.

A prescindere dal peso che la Commissione Territoriale di Bari abbia voluto riconoscere all’avvenuta integrazione del ricorrente nel tessuto sociale, il merito di una simile decisione va comunque rinvenuto nel tentativo della Commissione di utilizzare almeno due motivazioni convergenti al fine di dimostrare che le modifiche normative operate con il dl n. 118/2018 consentano ancora una piena valorizzazione di quegli elementi – un tempo rilevanti ai fini della protezione umanitaria – che possano fondare un divieto di inespellibilità tutte le volte in cui il rimpatrio nel Paese di origine possa condurre ad una grave violazione dei diritti umani fondamentali, aspetto questo che consente di ricondurre ad unitarietà il sistema di asilo del nostro ordinamento, trattandosi del requisito comune a tutte le tre forme di protezione riconosciute (status di rifugiato, protezione sussidiaria, protezione speciale di cui all’art. 19, co. 1 e co. 1.1. Tui).

A conclusione della presente analisi, merita soffermarsi su un’ultima (breve) considerazione.

Alla luce della doppia lettura della decisione della Commissione qui proposta è arduo non chiedersi se la Commissione non avesse comunque potuto applicare al caso in esame l’istituto della protezione umanitaria di cui al previgente art. 5, co. 6, Tui, a fronte della recente pronuncia delle Sezioni Unite che ha statuito l’irretroattività del dl n. 113/2008, convertito in L. n. 132/2018, rispetto alle domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore della nuova legge16. La pronuncia delle Sezioni Unite, in questione, individua nella presentazione della domanda di protezione il momento rispetto al quale definire il regime normativo applicabile, in quanto con “la domanda in sede amministrativa che il titolare del diritto esprime il bisogno di tutela e il bisogno ti tutela per ragioni umanitaria va regolato secondo le modalità previste dal legislatore nazionale”.

Nel caso di specie, la decisione della Commissione è scaturita dalla domanda di protezione internazionale reiterata mediante compilazione di un nuovo modulo ministeriale. Come si è detto, la domanda reiterata è stata avanzata a seguito del diniego di qualunque protezione sia in sede amministrativa che nella successiva fase giurisprudenziale.

Occorre chiedersi se, in casi come questi, la domanda di protezione – che identifica e attrae il regime normativo della protezione per ragioni umanitarie da applicare – sia da individuarsi nella prima domanda ovvero in quella reiterata. La risposta a tale domanda dipende, evidentemente, da quale argomentazione – tra quelle ricavabili dalla lettura della decisione in commento – si intenda privilegiare. Come è noto, la domanda reiterata presuppone che il richiedente adduca “nuovi elementi in merito alle sue condizioni personali o alla situazione del suo Paese di origine17. Nel caso in esame i nuovi elementi addotti dal cittadino senegalese attengono, verosimilmente, alla produzione di una serie di documenti atti a dimostrate “un proficuo percorso di integrazione socio-lavorativa nel corso del suo soggiorno nel territorio italiano”. Se tali elementi si ritenessero effettivamente dirimenti nella decisione finale di riconoscimento della protezione da parte della Commissione, evidentemente il regime normativo applicabile dovrebbe essere individuato in quello vigente al momento della seconda domanda di protezione. Laddove, tuttavia, si ritenesse preponderante l’interpretazione dell’art. 19 Tui volta a dare attuazione diretta all’art. 10, co. 3, Cost., appare evidente che l’integrazione sociale sul territorio italiano del richiedente asilo e la sua dimostrazione perderebbero ogni tipo di rilevanza ai fini del riconoscimento della protezione sociale. In tale ultimo caso, invero, non potrebbe negarsi che il bisogno di tutela per ragioni umanitarie, espresso dalla domanda avanzata in sede amministrativa, si sia cristallizzato al momento della proposizione della prima domanda di protezione internazionale e non in quella successivamente reiterata. Se è vero che la pronuncia dell’autorità amministrativa o del Tribunale si configura come pronuncia dichiarativa e non costitutiva del diritto, il diritto ad ottenere la protezione – in attuazione del diritto di asilo costituzionale – è sorto prima dell’entrata in vigore del dl n. 113/2018 e a prescindere dal fatto che nel corso del procedimento amministrativo e giurisdizionale finalizzati al suo riconoscimento si sia realizzata l’integrazione sociale del richiedente sul territorio italiano.


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  1. Decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, coordinato con la legge di conversione 1º dicembre 2018, n. 132, recante «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata» pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 3 dicembre 2018, n. 281.
  2. Art. 19, co. 1, Tui: “In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”.
  3. Art. 19, co.1.1., Tui: “Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”. Quest’ultima fattispecie è stata inserita nel predetto articolo con la legge 14 luglio 2017, n. 110, che ha introdotto nel nostro ordinamento il reato di tortura di cui all’art. 613-bis c.p.
  4. Decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251 adottato in attuazione della Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004 recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, in G.U.U.E. 30 settembre 2004.
  5. Art. 14, co. 1, lett. c), DpR 31 agosto, n. 394: “Il permesso di soggiorno rilasciato per motivi di lavoro subordinato o di lavoro autonomo e per motivi familiari può essere utilizzato anche per le altre attività consentite allo straniero, anche senza conversione o rettifica del documento, per il periodo di validità dello stesso. In particolare: (…) il permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare o per ingresso al seguito del lavoratore, per motivi umanitari ovvero per integrazione minore nei confronti dei minori che si trovino nelle condizioni di cui all’articolo 32, commi 1-bis e 1-ter, del testo unico e per i quali il Comitato per i minori stranieri ha espresso parere favorevole, consente l’esercizio del lavoro subordinato e del lavoro autonomo alle condizioni di cui alle lettere a) e b)”.
  6. Art.30, co. 1, lett. b), Tui
  7. Cfr. Cass. Civ. 26 giugno 2012, n. 10686; Cass. Civ. 4 agosto 2016, n. 16362; Cass. Civ. 3 ottobre 2017, n. 28015. Tale interpretazione ha trovato, da ultimo, conferma in Corte Cost. 24 luglio 2019, n. 194.
  8. Cfr. Padula C., Quale sorte per il permesso di soggiorno per motivi umanitari dopo il dl. 113/2018?, in Questione Giustizia on line.
  9. Cfr. Trib. Roma, sent. 1.10.1999, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 1999, 3, p. 112. Si tratta della prima decisione di un Tribunale di merito che ha applicato in via diretta l’art. 10, co. 3, Cost., riconoscendo l’asilo costituzionale ad Abdullah Ocalan, leader del movimento curdo PKK.
  10. Corte Cost. 24 luglio 2019, n. 194 (già citata in nota n. 2).
  11. Per una compiuta disamina della pronuncia della Corte Costituzionale richiamata, si veda: Mangano F., L’interpretazione dei giudici nella disciplina dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, in Questione Giustizia on line.
  12. Corte Cost. 24 luglio 2019, n. 194, par. 7.8.
  13. De Chiara C., L’Unione europea e il diritto di asilo: da “Dublino” alla Turchia.
  14. Cass. Civ. S.U. n. 4674/1997.
  15. Cfr. Cass. Civ. 23 febbrai 2018, n. 4455 e Cass. Civ. 19 aprile 2019, n. 11110.
  16. Cass. Civ. S.U. 24 settembre 2019 – 13 novembre 2019, n. 29459.
  17. Cfr. Art. 29 d.lgs n. 25/2008: “La Commissione territoriale dichiara inammissibile la domanda e non procede all’esame, nei seguenti casi: a) il richiedente è stato riconosciuto rifugiato da uno Stato firmatario della Convenzione di Ginevra e possa ancora avvalersi di tale protezione; b) il richiedente ha reiterato identica domanda dopo che sia stata presa una decisione da parte della Commissione stessa senza addurre nuovi elementi in merito alle sue condizioni personali o alla situazione del suo Paese di origine”.
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