La Corte europea di Giustizia rimanda ai singoli Stati il rilascio di visti di ingresso umanitari. Per l’avvocata Caterina Bove, di Asgi, si afferma il paradosso di un diritto fondamentale che non viene garantito a tutti.
Con la sentenza emessa martedì 7 marzo, la Corte europea di Giustizia di Lussemburgo ha chiarito che i Paesi membri dell’Unione europea non sono obbligati ad accordare visti di ingresso umanitari a tutti i rifugiati, ma possono regolarsi secondo le norme in vigore caso per caso.
La causa, etichettata come C-638/16, era arrivata alla Corte europea in seguito al ricorso portato avanti da una famiglia siriana, originaria di Aleppo, che si era vista rifiutare dal Belgio un visto di 90 giorni richiesto per motivi umanitari.
La sentenza accoglie la posizione degli avvocati del governo belga, sconfessando il parere fornito invece da Paolo Mengozzi, avvocato generale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Secondo il legale italiano il codice comunitario dei visti non si limita a dare agli Stati membri la possibilità di concedere in via eccezionale un visto per motivi umanitari a persone che altrimenti non avrebbero il diritto di accedere al territorio dell’Unione europea, ma obbliga a farlo.
«Non si tratta di una semplice facoltà», aveva scritto Mengozzi nelle sue dichiarazioni, perché gli Stati membri, quando attuano il diritto dell’Unione europea, sono tenuti a rispettare anche la carta dei diritti fondamentali, che non solo vieta ai singoli Paesi di infliggere trattamenti inumani o degradanti, ma impone loro di «prendere delle misure ragionevoli per impedire che delle persone subiscano simili trattamenti».
La vicenda risale all’ottobre del 2016, quando la famiglia di Aleppo aveva presentato presso il consolato belga in Libano una domanda di visto umanitario per poter raggiungere in modo legale e sicuro il Belgio e chiedere asilo politico, ricevendo però un rifiuto. La famiglia aveva fatto ricorso alla Cce, la Commissione belga per il contenzioso in materia di stranieri, che in quello stesso periodo era già impegnato nella gestione di una vicenda simile, visto che il Segretario di stato per le politiche di immigrazione e di asilo aveva appena rifiutato di rilasciare un visto umanitario a un’altra famiglia siriana. Per ottenere finalmente una risposta definitiva, il Belgio aveva deciso di interrogare la Corte europea di giustizia, che ha riconosciuto la discrezionalità di Bruxelles di fronte a queste richieste.
Secondo Caterina Bove, avvocata e collaboratrice dell’Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, «la sentenza era prevedibile in qualche modo, anche considerato il clima politico in cui è stata emessa».
Relativamente a questa causa, di che visto parliamo?
«Parliamo di uno strumento disciplinato dal regolamento europeo dei visti, all’articolo 25, nel quale si prevede che gli Stati possano rilasciare un visto a validità territoriale limitata, cioè che vale soltanto per il loro territorio e per un massimo di 90 giorni. Questo visto viene rilasciato quando si ritiene necessario per motivi umanitari o per obblighi internazionali».
Come si applica al caso specifico?
«Serve un piccolo riassunto: la famiglia siriana si era recata all’ambasciata belga richiedendo questo visto e motivandolo con il fatto di essere in fuga da una situazione drammatica in Siria e sottolineando che se questo non fosse stato rilasciato, non avrebbe potuto esercitare il diritto d’asilo, vista l’impossibilità di arrivare in Belgio in maniera sicura. Bruxelles ha rifiutato questo visto, ritenendo di non essere tenuto a rilasciarlo, e allora la famiglia siriana ha fatto ricorso al tribunale, che ha rinviato alla Corte di giustizia per sapere in che modo questa normativa si dovesse interpretare, per capire se gli Stati non soltanto possono rilasciare questo visto, ma devono farlo quando il mancato rilascio espone le persone a un rischio concreto di subire trattamenti inumani e degradanti vietati dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Oltretutto, tra questi c’è anche il rischio di non poter accedere al diritto d’asilo, che a sua volta è tutelato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea all’articolo 4».
Oltre a fotografare la situazione attuale, questa sentenza impone anche delle variazioni nel nostro ordinamento?
«No. In pratica questa sentenza lascia tutto com’è, perché interpreta la normativa in maniera molto letterale. Mentre l’avvocato generale, Paolo Mengozzi, aveva fatto leva sui principi fondamentali dell’Unione europea, sul diritto d’asilo e sul divieto di subire trattamenti inumani e degradanti, affermando che non rilasciare questo visto significa indirettamente violare questi principi fondamentali, la Corte si è limitata a un’interpretazione formale. Secondo la sentenza, infatti, il rilascio di questo visto non è materia europea, perché non è veramente quello che avevano chiesto, cioè un visto di 90 giorni a validità territoriale limitata, previsto dal codice dei visti. Stando alla lettura della Corte, quando si chiede un visto come quello, che prelude alla richiesta della protezione internazionale, il soggiorno sarà sicuramente superiore ai 90 giorni. In sostanza, la Corte evita il problema appoggiandosi soltanto su un’interpretazione formale, e afferma che se interpretasse il codice dei visti come chiede l’avvocato generale, questo stravolgerebbe completamente il sistema d’asilo, che invece in questo momento ha delle regole ben precise perché, in base al regolamento di Dublino, definisce il modo in cui gli stati sono responsabili della domanda d’asilo. Inoltre, la Corte afferma che in questo momento il diritto d’asilo si può esercitare soltanto nel territorio degli Stati membri, non all’estero e soprattutto non nelle ambasciate».
Possiamo pensare che l’Europa in questo caso abbia perso un’occasione?
«Sì, è proprio un’occasione persa, quella di mettere a nudo il paradosso per cui il diritto d’asilo esiste, è tutelato, ma si riesce a esercitarlo soltanto arrivando in maniera illegale sul territorio degli Stati. È paradossale dover affermare che l’Unione europea tutela in maniera assoluta questo diritto, tutela la dignità, la vita umana e cerca di evitare che le persone siano sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, ma che questo diritto è garantito soltanto a quelle persone che, pagando trafficanti e affrontando viaggi pericolosissimi, più pericolosi magari a volte dei pericoli da cui scappano, riescono effettivamente ad arrivare nel territorio degli Stati membri. È un’occasione mancata perché la Corte avrebbe potuto affermare il principio dell’anticipazione di tutela. Certo, dall’altra parte potrebbe essere rischioso anticipare eccessivamente questa tutela, perché significa selezionare in partenza le persone che poi possono avere diritto comunque all’asilo, arrivando magari a distorsioni come affermare che soltanto i siriani, soltanto chi scappa da una situazione evidente, può accedere all’asilo. Tuttavia, sarebbe a mio avviso una soluzione da adottare, senza poi precludere l’accesso di chiunque altro riesca ad arrivare sul territorio per poi chiedere asilo. Non dovrebbe essere un unico canale, ma dovrebbe essere uno dei canali, perché al momento tutti in teoria possono chiedere asilo, ma nei fatti lo può fare soltanto chi ci riesce ad arrivare in un Paese europeo».
L’articolo 25 della normativa europea sui visti è lo stesso da cui si è partiti per dare vita ai corridoi umanitari di Fcei, Tavola valdese e Comunità di Sant’Egidio. Per questo tipo di iniziative cambia qualcosa?
«No, perché formalmente sono visti che vengono concordati con lo Stato italiano, che quindi ogni Paese può continuare a rilasciare. Certo, la speranza è che tutti inizino a rilasciarli, ma in questo caso la Corte europea avrebbe potuto affermare un principio valido per tutti gli Stati, perché poi internamente ogni Paese ha la facoltà di farlo, in linea con l’attuale normativa europea».
Fonte: Riforma.it
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