Corte costituzionale, sentenza del 7 dicembre 2017, n.258

La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), nella parte in cui non prevede che sia esonerata dal giuramento la persona incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di grave e accertata condizione di disabilità.

L’esonero dal giuramento deve operare a prescindere dal “tipo” di incapacità giuridicamente rilevante. Ciò che rileva è l’impossibilità materiale di compiere l’atto in ragione di una grave patologia.

Corte costituzionale, sentenza del 7 dicembre 2017, n.258

Il comunicato stampa


SENTENZA N. 258

ANNO 2017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORE LLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), dell’art. 7, comma 1 [recte: 2], del decreto del Presidente della Repubblica 12 ottobre 1993, n. 572 (Regolamento di esecuzione della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza), e dell’art. 25, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), promosso dal giudice tutelare del Tribunale ordinario di Modena sul ricorso proposto da A. S. nella qualità di amministratore di sostegno di S. K., con ordinanza del 6 dicembre 2016, iscritta al n. 63 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Udito nella camera di consiglio del 25 ottobre 2017 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera.

Ritenuto in fatto

1.– Il giudice tutelare del Tribunale ordinario di Modena ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), dell’art. 7, comma 1 [recte: 2], del d.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572 (Regolamento di esecuzione della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza), e dell’art. 25, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nelle parti in cui prevedono l’obbligo di prestazione del giuramento per l’acquisizione della cittadinanza, anche laddove tale adempimento non possa essere prestato dalla persona affetta da disabilità a causa della sua condizione patologica.
Le norme sono state impugnate in riferimento agli artt. 2 e 3, secondo comma, della Costituzione, all’art. 18 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità), nonché agli artt. 21 e 26 della Dichiarazione O.N.U. dei diritti delle persone con disabilità del 1975 [recte: della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo con adattamenti il 12 dicembre 2007].

2.– Nel giudizio principale A. S., amministratore di sostegno della figlia S. K., ha richiesto al giudice tutelare di autorizzare la trascrizione del decreto concessivo della cittadinanza a favore della figlia in assenza del prescritto giuramento, dato che la figlia non sarebbe in grado di prestare tale atto, in quanto affetta da «epilessia parziale con secondaria generalizzazione» e «ritardo mentale grave in pachigiria focale». La giovane beneficiaria, ascoltata in udienza per saggiarne l’idoneità a prestare il prescritto giuramento, è apparsa del tutto disorientata nel tempo e nello spazio.

3.– Poste tali premesse, il rimettente si sofferma sul quadro normativo della materia.
In base all’art. 9, comma 1, della legge n. 91 del 1992, la cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’interno, allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica. L’art. 10 della medesima legge dispone che il «decreto di concessione della cittadinanza non ha effetto se la persona a cui si riferisce non presta, entro sei mesi dalla notifica del decreto medesimo, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato», mentre l’art. 23, comma 1, della legge n. 91 del 1992, dispone che le dichiarazioni per l’acquisto della cittadinanza «e la prestazione del giuramento previste dalla presente legge sono rese all’ufficiale dello stato civile del comune dove il dichiarante risiede o intende stabilire la propria residenza, ovvero, in caso di residenza all’estero, davanti all’autorità diplomatica o consolare del luogo di residenza».
A sua volta, l’art. 7, comma 2, del d.P.R. n. 572 del 1993, prevede che «[i]l giuramento di cui all’art. 10 della legge deve essere prestato entro sei mesi dalla notifica all’intestatario del decreto di cui agli articoli 7 e 9 della legge» e l’art. 25, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000, stabilisce che «[l]’ufficiale dello stato civile non può trascrivere il decreto di concessione della cittadinanza se prima non è stato prestato il giuramento prescritto dall’articolo 10 della legge 5 febbraio 1992, n. 91». Infine, l’art. 27 del d.P.R. n. 396 del 2000, prevede che «[l]’acquisto della cittadinanza italiana ha effetto dal giorno successivo a quello in cui è stato prestato il giuramento, ai sensi di quanto disposto dagli articoli 10 e 15 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, anche quando la trascrizione del decreto di concessione avviene in data posteriore».
Da tale disciplina dovrebbe trarsi, ad avviso del rimettente, che il giuramento sia un adempimento determinante per l’acquisto della cittadinanza italiana, con la conseguenza di ostacolare detta acquisizione da parte della persona non in grado di prestare il prescritto giuramento a causa di infermità mentale. Si tratterebbe di una «lacuna normativa» ovvero di un «contrasto del tessuto normativo rispetto ai parametri costituzionali».

4.– Il rimettente richiama alcune pronunce giurisdizionali che hanno tentato di affrontare la questione.
Un primo decreto emesso dal Tribunale di Bologna, in data 9 gennaio 2009, ha esonerato dal giuramento l’incapace, applicando all’amministrazione di sostegno, ex art. 411 del codice civile, l’orientamento espresso dal
Consiglio di Stato in sede consultiva con riferimento all’interdizione. A parere del Consiglio di Stato, il giuramento non dovrebbe essere richiesto all’interdetto nei procedimenti per l’acquisizione della cittadinanza, in quanto atto personalissimo non delegabile al tutore (Consiglio d[i] Stato, sezione prima, parere del 13 marzo 1987, n. 261/85). In tale direzione, peraltro, si è espresso il Tribunale di Mantova con decreto del 2 dicembre 2010.

5.– Il rimettente reputa tali soluzioni non convincenti, escludendo la possibilità di applicazione analogica dell’art. 411 cod. civ. per estendere all’amministrazione di sostegno effetti, limitazioni o decadenze previsti dalla legge per l’interdetto e l’inabilitato. La norma codicistica, nella specie, ammetterebbe l’estensione all’amministrazione di sostegno unicamente di istituti disciplinati espressamente dalla legge, e non da «atti amministrativi, quali sono i pareri espressi dal C[onsiglio] di S[tato]».
Ciò posto, le possibili soluzioni della quaestio iuris sarebbero due, «alternative l’una all’altra».

6.– Secondo una prima prospettazione, il giuramento implicherebbe un impegno morale ed una partecipazione consapevole alla comunità statuale da parte del dichiarante: l’assunzione dello status di cittadino implicherebbe una adesione consapevole e cosciente all’esercizio dei diritti e all’adempimento dei doveri. In tale prospettiva, posta la natura personalissima dell’atto, la cittadinanza non potrebbe essere acquisita da chi difetti della naturale capacità di comprenderne le conseguenze giuridiche e morali del giuramento, e il significato che tale atto assume di fronte alla collettività.

7.– In base a una diversa prospettazione, il rimettente sottolinea come possa ipotizzarsi l’illegittimità costituzionale della normativa summenzionata, nella parte in cui non prevede deroghe all’obbligo della prestazione del giuramento, quale condizione per l’acquisizione della cittadinanza italiana, in presenza di «condizioni personali di infermità mentale in cui versi il futuro cittadino, impeditive [de]l compimento dell’atto formale in discorso».
La non manifesta infondatezza della questione emergerebbe dal contrasto con l’art. 2 Cost., che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo: «non permettere al disabile psichico l’acquisizione di un diritto fondamentale», qual è lo status di cittadino, «dal momento che non è in grado della prestazione dell’atto formale del giuramento, significherebbe, alla fin fine, non “garantire” tale diritto; escludendo, così, l’infermo di mente dalla nuova collettività in cui è nato e si è formato, solo a causa dell’impedimento determinato dalla sua condizione psichica di natura personale».

7.1.– Il rimettente ipotizza poi un contrasto con l’art. 3, comma secondo, della Costituzione: l’impossibilità di prestare giuramento sarebbe infatti un «significativo “ostacolo”» che impedisce la piena realizzazione della personalità del disabile affetto da malattia mentale. Vi sarebbe quindi una «disparità di trattamento tra cittadini sani e normali, […] in grado di prestare giuramento, e quanti sani non siano in quanto affetti da disabilità e che, per effetto della mancata prestazione del giuramento, non possono acquistare lo status civitatis».

7.2.– Il Tribunale non manca di sottolineare come la normativa impugnata contrasti con «[i]l quadro legislativo sovranazionale, cui l’ordinamento dello Stato è tenuto a conformarsi». La normativa censurata contrasterebbe con l’art. 18 della Convenzione delle Nazioni Unite per i diritti delle persone disabili, il quale disporrebbe che «il diritto alla cittadinanza non può essere negato e dunque i disabili hanno il diritto di acquisire e cambiare la cittadinanza e non possono essere privati della stessa arbitrariamente o a causa della loro disabilità».
La menzionata Convenzione individuerebbe la condizione di disabilità «nell’esistenza di barriere di diversa natura e tipologia che possano ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nella società, in condizioni di uguaglianza con gli altri, per le persone che presentano delle durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali». Essa rievocherebbe «i principi enunciati anche dalla Dichiarazione O.N.U. dei diritti delle persone con ritardo mentale del 1971, dalla Dichiarazione O.N.U. dei diritti delle persone con disabilità del 1975, dagli artt. 21 […] e 26 […] della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea di Nizza, resa vincolante dal Trattato di Lisbona del 2009». Proprio le disposizioni del diritto europeo sottolineerebbero la centralità della tutela dei diritti della persona nella fase attuale dell’integrazione dell’Unione europea e richiederebbero il riconoscimento della cittadinanza anche ai cittadini di paesi terzi.

7.3.– In conclusione, il rimettente sottolinea come la normativa censurata, che considera il giuramento alla stregua di una condizione di efficacia per l’acquisizione della cittadinanza, anche laddove l’aspirante cittadino sia in uno stato di disabilità, lederebbe la legittima aspettativa del disabile a vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana, in presenza dei requisiti oggettivi fissati dalla legge. Inoltre, «si affaccerebbe il rischio di lasciare lo straniero isolato da quella trama di relazioni di cui, ai fini dello status civitatis, costituisce il principale centro di imputazione di interessi».

Considerato in diritto

1.– Il giudice tutelare del Tribunale ordinario di Modena dubita della legittimità costituzionale degli artt. 10 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), 7, comma 1 (recte: comma 2), del decreto del Presidente della Repubblica 12 ottobre 1993, n. 572 (Regolamento di esecuzione della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza) e 25, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nelle parti in cui non prevedono l’esenzione dall’obbligo del giuramento della persona affetta da disabilità la quale, per le sue condizioni, si trovi nell’impossibilità di adempiere tale obbligo.

2.– Secondo il rimettente, in virtù delle norme censurate, il decreto presidenziale di concessione della cittadinanza non potrebbe essere trascritto nei registri dello stato civile in assenza del giuramento: l’adempimento di tale obbligo sarebbe determinante ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana, acquisto che non risulterebbe possibile nel caso in cui la persona non sia in grado di prestare il prescritto giuramento a causa di disabilità psichica. Le disposizioni censurate contrasterebbero, dunque, con l’art. 2 della Costituzione, perché «non permettere al disabile psichico l’acquisizione di un diritto fondamentale», quale sarebbe lo status di cittadino, significherebbe non «garantire» tale diritto, escludendo l’infermo di mente dalla collettività in cui è nato e si è formato, solo a causa dell’impedimento determinato dalla sua condizione psichica di natura personale.

2.1.– Le norme impugnate violerebbero, poi, l’art. 3, secondo comma, Cost.: l’impossibilità di prestare giuramento costituirebbe infatti un «significativo “ostacolo”», che impedirebbe di fatto la piena libertà ed eguaglianza del disabile affetto da infermità psichica. Sussisterebbe, quindi, una disparità di trattamento tra individui sani, in grado di prestare giuramento, e «quanti sani non siano in quanto affetti da disabilità e che, per effetto della mancata prestazione del giuramento, non possono acquistare lo status civitatis».

2.2.– Le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto anche con la disciplina internazionale e sovranazionale e, in particolare, con l’art. 18 della Convenzione delle Nazioni Unite per i diritti delle persone disabili, ratificata e resa esecutiva con la legge 3 marzo 2009, n. 18 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità), nonché con gli artt. 21 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (indicata, per mero errore materiale, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione come «Dichiarazione O.N.U. dei diritti delle persone con disabilità del 1975»), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

2.2.1.– Il citato art. 18 della Convenzione delle Nazioni Unite del 2006 dispone infatti che «il diritto alla cittadinanza non può essere negato e dunque i disabili hanno il diritto di acquisire e cambiare la cittadinanza e non possono essere privati della stessa arbitrariamente o a causa della loro disabilità». La centralità della tutela dei diritti della persona sarebbe confermata dai richiamati artt. 21 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che esigono il riconoscimento della cittadinanza anche ai cittadini disabili di paesi terzi.

3.– Il giudice a quo ritiene di non potere offrire un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme censurate né fare proprio un orientamento della giurisprudenza di merito (è richiamato il decreto 9 gennaio 2009 del Tribunale di Bologna) che, sulla scorta di un parere emesso dal Consiglio di Stato con riferimento all’interdizione, ha ritenuto che l’interdetto non debba prestare giuramento (Consiglio di Stato, sezione prima, parere del 13 marzo 1987, n. 261/85).
Ad avviso del rimettente, osta a detta esegesi l’impossibilità di applicare per analogia l’art. 411, ultimo comma, del codice civile, il quale estende all’amministrazione di sostegno effetti, limitazioni o decadenze previste dalle norme che disciplinano l’interdizione e l’inabilitazione. La norma del codice civile – osserva il rimettente – renderebbe applicabile all’amministrazione di sostegno gli istituti disciplinati dalla legge, non da «atti amministrativi quali sono i pareri espressi dal Consiglio di Stato».
Secondo il giudice a quo, il giuramento tradurrebbe un impegno morale ed una partecipazione consapevole alla comunità statuale da parte del dichiarante: l’assunzione dello status di cittadino implicherebbe un’adesione consapevole e cosciente all’esercizio dei diritti e all’adempimento dei doveri. La natura personalissima del giuramento comporterebbe che la cittadinanza non potrebbe essere acquisita da colui il quale difetta della naturale capacità di comprendere le conseguenze giuridiche e morali del giuramento, e il significato che tale atto assume di fronte alla collettività.

4.– Preliminarmente, va ribadita la legittimazione del giudice tutelare, nei procedimenti di volontaria giurisdizione, concernenti l’amministrazione di sostegno, a sollevare questione di legittimità costituzionale in via incidentale (sentenza n. 440 del 2005).

5.– Va in proposito osservato che l’amministratore di sostegno ha richiesto al giudice tutelare di autorizzare la trascrizione del decreto presidenziale di concessione della cittadinanza emesso a favore della figlia. Questa Corte ha già affermato che, nel giudizio in via incidentale, il riscontro della giurisdizione e della competenza dell’autorità rimettente – più in generale, dei presupposti di esistenza del giudizio principale – è riservato al giudice a quo nell’ambito della valutazione della rilevanza, e non è sindacabile dalla Corte a meno che detti presupposti non risultino «manifestamente o incontrovertibilmente carenti» (sentenza n. 262 del 2015; nello stesso senso, sentenze n. 34 del 2010, n. 241 del 2008, n. 163 del 1993), ciò che nella specie non è dato riscontrare.

6.– La questione concernente gli artt. 7, comma 2, del d.P.R. n. 572 del 1993 e 25, comma 2, del d.P.R. n. 396 del 2000, è inammissibile, avendo ad oggetto disposizioni di rango regolamentare, prive di forza di legge, sottratte, quindi, al sindacato di legittimità di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 254 e n. 81 del 2016, n. 156 del 2013).

7.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge n. 91 del 1992, sollevata in riferimento agli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost., è fondata.
Il citato art. 10, in seguito alla concessione allo straniero della cittadinanza italiana, avvenuta con decreto del Presidente della Repubblica sulla base dei requisiti previsti dalla legge n. 91 del 1992, ne subordina la trascrizione nei registri dello stato civile alla prestazione del giuramento di esseri fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. L’acquisizione dello status di cittadino non risulta possibile, perciò, nel caso in cui la persona non sia in grado di prestare detto giuramento a causa di grave disabilità psichica.

7.1.– L’art. 54, comma primo, Cost., che impone al cittadino il dovere di fedeltà alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi, trova concreta espressione, per lo straniero, nella prestazione del giuramento, manifestazione solenne di adesione ai valori repubblicani. Il giuramento richiesto dalla disposizione impugnata è quindi atto personale, che attiene direttamente al diritto costituzionale, in ragione dei valori incorporati nella sua prestazione. In quanto tale, non può essere reso da un rappresentante legale in sostituzione dell’interessato, secondo le norme del codice civile.

7.2.– Appare pertanto corretta la premessa del rimettente, secondo il quale non è possibile fornire della norma censurata un’interpretazione costituzionalmente orientata.
L’obbligo di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione deve, infatti, cedere il passo all’incidente di legittimità costituzionale, laddove essa sia incompatibile con il tenore letterale della disposizione. Come questa Corte ha avuto modo di affermare, infatti, quando non sia in grado di «trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione, il giudice è tenuto ad investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale» (sentenza n. 36 del 2016).

8.– La natura del giuramento di cui all’art. 54 della Costituzione richiama direttamente i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
L’art. 2 Cost., nell’imporre alla Repubblica il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili, «sia come singolo, sia nelle formazioni ove si svolge la sua personalità», delinea un fondamentale principio che pone al vertice dell’ordinamento la dignità e il valore della persona.
In coerenza con tale prospettiva, l’art. 2 Cost. non può essere disgiunto dall’art. 3, secondo comma, Cost., il quale affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono la libertà e l’uguaglianza nonché il pieno sviluppo della persona.
Tale lettura si collega, anche se non espressamente evocato nell’ordinanza del rimettente, al primo comma del medesimo articolo che, a protezione della stessa inviolabilità dei diritti, garantisce il principio di eguaglianza a prescindere dalle «condizioni personali». Come questa Corte ha già più volte statuito, sebbene l’art. 3 si riferisca espressamente ai soli cittadini, la norma in esso contenuta vale pure per lo straniero «quando trattisi di rispettare […] diritti fondamentali» (sentenza n. 120 del 1967), ancor più quando, come nel caso di specie, trattasi di uno
straniero cui sia stata concessa la cittadinanza e che deve solo adempiere una condizione per l’acquisizione della stessa.

8.1.– Fra le condizioni personali che limitano l’eguaglianza si colloca indubbiamente la condizione di disabilità. Tale fenomeno è espressamente considerato dalla Costituzione: assume esplicito rilievo nell’art. 38 Cost. che, al primo comma, riconosce il diritto all’assistenza sociale per gli inabili al lavoro, mentre al terzo comma riconosce agli «inabili» e ai «minorati» il diritto all’educazione e alla formazione professionale.
I summenzionati principi sono stati attuati dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), che disegna il fondamentale quadro normativo in materia di disabilità, volto non solo a prestare assistenza ma anche a favorire l’integrazione sociale del disabile. Tale disciplina, come ha avuto modo di sottolineare questa Corte, ha segnato un «radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i problemi delle persone affette da invalidità, considerati […] quali problemi non solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall’intera collettività» (sentenza n. 167 del 1999). Le condizioni invalidanti, come dispone l’art. 1 della citata legge, sono ostacoli che la Repubblica ha il compito di rimuovere per consentire la «massima autonomia possibile» del disabile e il pieno esercizio dei diritti fondamentali.
Su tale compito promozionale, imposto dalla Costituzione ai pubblici poteri, è tornata questa Corte la quale, con riferimento al diritto all’istruzione del portatore di disabilità, ha rimarcato che sul tema della condizione giuridica dello stesso «confluiscono un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale» (sentenze n. 275 del 2016 e n. 215 del 1987), in vista del processo di inserimento nella società (sentenza n. 80 del 2010).

9.– Tale inserimento, ove siano soddisfatte le altre condizioni previste dalla legge che regola l’acquisizione della cittadinanza, è evidentemente impedito dall’imposizione normativa del giuramento alla persona che, in ragione di patologie psichiche di particolare gravità, sia incapace di prestarlo. La necessità di esso, e la mancata acquisizione della cittadinanza che, in sua assenza, ne consegue, può determinare una forma di emarginazione sociale che irragionevolmente esclude il portatore di gravi disabilità dal godimento della cittadinanza, intesa quale condizione generale di appartenenza alla comunità nazionale. Può inoltre determinare una ulteriore e possibile forma di emarginazione, anche rispetto ad altri familiari che abbiano conseguito la cittadinanza.
Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, nella parte in cui non esonera dal giuramento il disabile incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di una grave e accertata condizione di disabilità.

10.– L’esonero dal giuramento deve operare a prescindere dal “tipo” di incapacità giuridicamente rilevante. Ciò che rileva è l’impossibilità materiale di compiere l’atto in ragione di una grave patologia, non rilevando la precipua condizione giuridica in cui versa il disabile e fermo restando il potere del Procuratore della Repubblica di impugnare gli atti, le omissioni e i rifiuti dell’ufficiale di stato civile, ai sensi dell’art. 95, comma secondo, del d.P.R. n. 396 del 2000, in caso di distorta applicazione della disciplina sull’esonero dal giuramento.
Sono assorbite le censure prospettate in relazione agli evocati parametri internazionali e sovranazionali.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), nella parte in cui non prevede che sia esonerata dal giuramento la persona incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di grave e accertata condizione di disabilità;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, del d.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572 (Regolamento di esecuzione della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza) e dell’art. 25, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevata dal giudice tutelare del Tribunale ordinario di Modena, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 novembre 2017.

F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Augusto Antonio BARBERA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 dicembre 2017.

Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA