Il principio di parità di trattamento nel riconoscimento dell’assegno di natalità (bonus bebè): considerazioni a margine di Corte Cost. 11 gennaio 2022 n. 54

Lodi

La Corte Costituzionale è recentemente intervenuta sull’erogazione dell’assegno di natalità in favore dei cittadini extracomunitari, dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 1 co. 125 L. 23 dicembre 2014 n°190 nella parte in cui riconosceva la provvidenza soltanto nei confronti di coloro che avevano ottenuto un permesso di soggiorno per lungo periodo, non tenendo conto della previsione generale dell’art. 41 T.U.I.

di Antonella Di Florio 
già consigliere di Cassazione

L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica.

1. Premessa

L’assegno di natalità (anche detto “Bonus Bebè”), rappresenta una misura di sostegno in funzione dell’incremento delle nascite ed è stato introdotto, per ciò che qui interessa, dall’art. 1 co 125 della L. 190 del 2014 (legge di bilancio annuale e pluriennale dello Stato 2015 per gli anni 2015, 2016 e 2017 ): tale norma ha stabilito che al fine di contribuire alle spese per la natalità in relazione ad ogni figlio nato o adottato tra il 1º gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 dovesse essere riconosciuto alle famiglie un importo pari a 960 euro annui, erogato mensilmente a decorrere dal mese della nascita o dell’adozione. 
La disposizione ne aveva previsto la corresponsione fino al compimento del terzo anno di età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione, per i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea o di cittadini di Stati extracomunitari residenti in Italia, con permesso di soggiorno per lungo periodo, disciplinato dall’articolo 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.286 e successive modificazioni, ponendo soltanto come condizione legale la capacità economica del nucleo familiare di appartenenza.

La previsione normativa è stata confermata anche dalla legge finanziaria del 2016 e da quella del 2019 (L. 27.12.2019 n° 160) che, all’art. 1 co. 339, ha confermato l’erogazione della provvidenza limitandola, però, al compimento del primo anno di età. 

Successivamente l’istituto è stato ulteriormente rivisitato dal Dlgs del 21.12.2021 n° 230, attuativo della legge delega 1 aprile 2021 n° 46, attraverso l’introduzione dell’assegno unico ed universale che ha conglobato le diverse provvidenze già esistenti, fra le quali l’assegno di natalità e l’assegno di maternità: il nuovo beneficio è un sostegno economico alle famiglie che hanno figli a carico e se ne prevede l’attribuzione a partire dal settimo mese di gravidanza fino al compimento dei 21 anni (al ricorrere di determinate condizioni) e senza limiti di età per i figli disabili. 

E’ universale perché è garantito in misura minima a tutte le famiglie con prole; è unico perché assorbe le altre misure a sostegno del nucleo, fra le quali anche l’assegno di natalità.

Tutte le provvidenze sopra descritte sono state progressivamente introdotte in favore dei cittadini italiani, comunitari o extracomunitari: per questi ultimi è stato previsto, nella normativa che ha originariamente introdotto l’istituto in esame con normativa primaria (e cioè l’art. 1 co. 125 L. 190/2014 sopra richiamato), che la sua concessione fosse circoscritta a coloro che erano titolari del permesso di soggiorno per lungo periodo (e cioè a tempo indeterminato) previsto dall’articolo 9 decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico Immigrazione) e successive modificazioni, senza tenere conto della più estesa previsione dell’art. 41 stesso testo che prevede, con disposizione di carattere generale, la piena equiparazione ai cittadini italiani degli stranieri titolari della carta di soggiorno o del permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno (nonché i minori iscritti in tali documenti), ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale.

2. La giurisprudenza sull’assegno di natalità e di maternità prima dell’entrata in vigore della l. 190/2014

La giurisprudenza di legittimità si era già occupata, in passato, dell’assegno di natalità con due pronunce particolarmente significative.

La prima (Cass. SUU 15 febbraio 2011 n° 3670) venne emessa nell’ambito di un regolamento di giurisdizione proposto in relazione alla seguente vicenda.

Nel 2008 una delibera della giunta comunale di Brescia aveva istituito un contributo di mille euro per ogni nato (c.d. “bonus bebè”), con l’espressa finalità di far fronte al problema della bassa natalità nelle famiglie cittadine meno abbienti, ponendo le condizioni che almeno un genitore fosse cittadino italiano e residente da non meno di due anni nel comune, oltre a quelle dei limiti di reddito. 

Tale provvedimento fu oggetto di ricorso dinanzi al tribunale, ai sensi degli artt. 44 d.lgs 286/1998 e 4 d.lgs. 215/2003 (c.d. “legge sulla parità di trattamento tra persone di diversa razza e origine etnica”), da parte di alcuni immigrati che lamentarono la natura discriminatoria della delibera in relazione al mancato possesso della cittadinanza, pur essendo titolari di tutti gli altri requisiti richiesti. Il ricorso venne accolto dal giudice adito, con ordinanza poi confermata dal collegio in sede di reclamo, facendosi obbligo al comune resistente di rimuovere il trattamento discriminatorio: venne dunque riconosciuto il contributo anche ai genitori stranieri, ove in possesso degli altri requisiti. 

Il Comune di Brescia, preso atto del provvedimento giudiziale e ritenuto che “l’estensione del beneficio sarebbe risultato in contrasto con la finalità prioritaria di sostegno alla natalità delle famiglie di cittadinanza italiana…” dispose la revoca del contributo per tutte le famiglie, sia italiane, sia straniere. 

A ciò, fece seguito una ulteriore denuncia degli stessi ricorrenti, in sede cautelare, in relazione alla natura ritorsiva del provvedimento, con richiesta di cessazione della condotta discriminatoria, mediante il ripristino delle condizioni previste nell’originaria delibera, eccetto quella della cittadinanza. 

La domanda venne accolta ed il Comune convenne i ricorrenti dinanzi al Tribunale al fine precipuo di far dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario con revoca dell’ordinanza cautelare, deducendo la natura amministrativa e discrezionale del provvedimento impugnato dalle controparti: a definizione del regolamento preventivo di giurisdizione instaurato, la Corte di Cassazione, con la sentenza sopra richiamata, affermò che l’azione proposta in relazione alla denunziata natura ritorsiva del provvedimento apparteneva alla giurisdizione del giudice ordinario, sia nella fase cautelare rivolta all’ottenimento di un provvedimento anticipatorio urgente, sia nella successiva fase della cognizione piena, così come previsto nell’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998; ed aggiunse che il quadro normativo costituzionale (art. 3 Cost.), sovranazionale (Direttiva 2000/43/CE) ed interno (art. 3 e 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 nonché l’art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) di riferimento configurava il diritto a non essere discriminati come un diritto soggettivo assoluto.

Un successivo arresto particolarmente significativo in materia, sia pur in relazione ad una provvidenza erogata a tutela della genitorialità e non della nascita, si rinviene in Cass. sez. lav. 23.5.2019, n. 14073 che ha precisato che in tema di assegno per maternità ex art. 75 del d.lgs. n. 151 del 2001, costituisce atto di discriminazione in ragione della nazionalità il diniego della prestazione previdenziale ai cittadini di Paesi terzi per mancato possesso della carta di soggiorno, con riferimento alla lettura congiunta degli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998 e delle fonti sovranazionali in materia.

In motivazione, la Corte ha precisato che l’art. 12 della direttiva CE 2011/98 sancisce il diritto dei lavoratori di Stati terzi, titolari di un permesso di soggiorno che consente di lavorare, a beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, per quanto concerne i settori della sicurezza sociale come definiti da Regolamento CE 883/2004 e, quindi, anche rispetto ai trattamenti di maternità e paternità previsti dall’art. 3 lett. b) di tale Regolamento.

L’orientamento della Corte di Cassazione risulta, dunque, costante nel ritenere necessaria una particolare vigilanza nella materia assistenziale rispetto alla concreta applicazione del principio di parità di trattamento fra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti nello Stato italiano.

3. L’evoluzione normativa portata dall’art. 1 co. 125 L 23.12.2014 n°190 e la valenza di clausola generale dell’art. 12 Direttiva CE 2011/98 e del Regolamento UE 833/2004

Come ricordato nella premessa, l’assegno di natalità è stato introdotto, a livello nazionale, per la prima volta dall’art. 1 co 125 L. 23.12.2014 n° 190 (legge di stabilità del 2015, riferita al bilancio annuale e pluriennale dello Stato fino al 2017) ed è stato successivamente confermato negli anni successivi, fino alla previsione, nel 2021, dell’assegno unico universale sopra richiamato.

La provvidenza, comunemente denominata “bonus bebè”, oggetto dell’intervento della Corte Costituzionale al quale si riferiscono le riflessioni del presente contributo, oltre ad essere disciplinata dalla norma sopra richiamata, ricade sotto l’egida dell’art. 12 della direttiva UE 2011/98 che ha valenza di clausola generale visto che, come si evince chiaramente dal preambolo e come confermato, a livello interpretativo, dall’arresto della Corte di Cassazione da ultimo citato (Cass. sez. lav. 23.5.2019 n. 14073), essa persegue l’obiettivo di «garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri», nella prospettiva di «una politica di integrazione più incisiva» (considerando n. 2), e di «ridurre la disparità di diritti tra i cittadini dell’Unione e i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro» (considerando n. 19).

In buona sostanza, a questi ultimi che già contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte, la direttiva attribuisce «un insieme di diritti» ed impone agli Stati membri di salvaguardarli, nell’organizzare i rispettivi sistemi di sicurezza sociale nella maniera che essi reputano più appropriata1.

In coerenza con tali finalità si devono, dunque, interpretare le prescrizioni che l’art. 12 della direttiva detta per «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è comunque consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002» (art. 3, paragrafo 1, lettera b) e per «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale» (art. 3, paragrafo 1, lettera c).

Partendo dalle conclusioni alle quali è giunta la Corte Costituzionale all’esito del lungo ed intrecciato percorso interpretativo, è stato, in sostanza ritenuto che a questi lavoratori l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva riconosce «lo stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano» per quel che concerne «i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004».

La parità di trattamento non è dunque circoscritta ai titolari di un permesso unico di lavoro, ma è riconosciuta anche in favore dei titolari di un permesso di soggiorno per fini diversi dall’attività lavorativa che siano autorizzati a lavorare nello Stato membro ospitante (come è stato ritenuto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 2 settembre 2021, nella causa C-350/20, punto 49 emessa a seguito del rinvio pregiudiziale).

Il diritto alla parità di trattamento è sancito nelle materie disciplinate dal regolamento (CE) n. 883/2004, applicabile a tutti i settori della sicurezza sociale, espressamente riferiti alle «prestazioni di maternità e di paternità assimilate» (art. 3, paragrafo 1, lettera b) e alle «prestazioni familiari» (art. 3, paragrafo 1, lettera j) che l’art. 1, lettera z) identifica in «tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I».

4. Il caso concreto oggetto della sentenza in esame

Il Tribunale di Milano, con pronuncia confermata dalla Corte d’Appello, accolse la domanda di un extracomunitario, legalmente presente nel territorio dello Stato ma privo della carta di soggiorno CE per lungo periodo, dichiarando discriminatoria la condotta posta in essere dall’Inps nei suoi confronti per avergli negato l’assegno di natalità previsto dall’art. 1, comma 125, della legge 23 dicembre 2014, n. 190: conseguentemente, venne ordinato all’Istituto di previdenza di cessare tale condotta e di rimuoverne gli effetti, e si riconobbe al ricorrente, per il suddetto titolo, la somma maturata nonché le ulteriori quote mensili, fino alla permanenza delle previste condizioni reddituali. 

La Corte d’appello, in particolare, nella propria motivazione, rilevò la sussistenza della lamentata discriminazione in quanto l’esclusione dall’erogazione del beneficio richiesto, motivata dalla nazionalità non italiana del richiedente, si poneva in contrasto con la disciplina sovranazionale in materia e richiamò, in particolare, l’art 12 della Direttiva 2011/98 ed il regolamento CE n. 883/2004 con lo stesso approccio ermeneutico della giurisprudenza di legittimità sopra richiamata al par. II.

A seguito di ricorso dell’INPS – fondato sulla asserita estraneità di tale misura rispetto al sistema delle tutele di sicurezza sociale richiamate dal regolamento CEE 883/2004 – la Corte di cassazione ha sollevato dinanzi alla Corte Costituzionale la questione di legittimità della norma invocata in ragione del fatto che essa, nella sua versione letterale, da una parte collegava l’erogazione della provvidenza, per gli stranieri, all’esclusivo presupposto della titolarità del permesso di soggiorno di cui all’art. 9 T.U.I. (permesso di soggiorno di lunga durata), con ciò escludendo il riconoscimento della provvidenza a tutti coloro che fossero titolari di altre forme di permesso di soggiorno, anche per finalità lavorativa; e, dall’altra, ignorava la valenza generale, oltre che della direttiva UE e del regolamento sopra richiamati, anche e soprattutto della esplicita previsione dell’art. 41 T.U.I., ratione temporis vigente, secondo il quale gli stranieri titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale.

La Corte Costituzionale2, dopo aver affermato la rilevanza della questione proposta, ha richiesto un intervento chiarificatore della Corte di Giustizia, funzionale alla garanzia di uniforme interpretazione del diritto unionale in relazione alla questione rimessa che è stata riunita ad altra questione pendente, riguardante l’assegno di maternità: alla base della decisione interlocutoria è stata posta la connessione inscindibile tra i princìpi e i diritti costituzionali evocati dalla Corte di cassazione nell’ordinanza di rimessione e quelli riconosciuti dalla Carta dei diritti, ampiamente invocata, rispetto alla quale la Corte si è assunta un compito di salvaguardia nella prospettiva di massima espansione. 

Sulla base di queste premesse, è stato posto un quesito specifico alla Corte di Giustizia e cioè se l’art. 34 della Carta debba essere interpretato nel senso che nel suo àmbito di applicazione rientrino l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, in base all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e j), del regolamento (CE) n. 883/2004, richiamato dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, e se, pertanto, il diritto dell’Unione non possa mai consentire una normativa nazionale che non estenda agli stranieri titolari del permesso unico di cui alla medesima direttiva le provvidenze sopra citate, già concesse agli stranieri titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

5. La sentenza della Corte di Giustizia 2 settembre 2021, nella causa C-350/2021, O. D. e altri

La Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione ha risposto affermativamente ai quesiti pregiudiziali formulati e ha riconosciuto che entrambe le provvidenze (assegno di natalità ed assegno di maternità) rientrano nell’ambito di applicazione del diritto alla parità di trattamento, in base all’art. 12 della direttiva 2011/98 UE, che concretizza l’art. 34 CDFUE, specificamente invocato come parametro dal giudice a quo.

E’ stato ribadito che essa persegue l’obiettivo di «garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri», nella prospettiva di «una politica di integrazione più incisiva» e di «ridurre la disparità di diritti tra i cittadini dell’Unione e i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro».

Il presupposto è rappresentato dalla affermazione che ai cittadini di Paesi terzi che già «contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte» (considerando n. 19), la direttiva attribuisce «un insieme di diritti» e impone agli Stati membri di salvaguardarli, nell’organizzare i rispettivi sistemi di sicurezza sociale (considerando n. 26) nella maniera che essi reputano più appropriata.

E’ stato dunque riaffermato che le prescrizioni che l’art. 12 della direttiva detta per «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002» (art. 3, paragrafo 1, lettera b) e per «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale» (art. 3, paragrafo 1, lettera c) devono essere interpretate in coerenza con tali finalità e cioè riconoscendo a quei lavoratori «lo stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano» per quel che concerne «i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004».

La conclusione “forte” è dunque rappresentata dall’affermazione che la parità di trattamento non è circoscritta ai titolari di un permesso unico di lavoro, ma è riconosciuta anche in favore dei titolari di un permesso di soggiorno per fini diversi dall’attività lavorativa che siano autorizzati a lavorare nello Stato membro ospitante.

Alla luce di tali premesse, la Corte di Giustizia ha esaminato l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, per accertare se rientrassero nell’ambito applicativo del regolamento (CE) n. 883/2004 e del diritto alla parità di trattamento: la conclusione cui è giunta è che si tratti di prestazione previdenziale attribuita in base a criteri obiettivi, e di natura familiare nei termini tratteggiati dal regolamento richiamato[enf_note]CGUE 2 settembre 2021, nella causa C-350/20, punti 54, 55 e 56 https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=245541&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=3386326 [/efn_note] dovendosi escludere che tali caratteristiche possano essere contraddette dalla concorrente natura premiale di incentivo alla natalità 

Nel sistema delineato dalla direttiva 2011/98/UE, il diritto alla parità di trattamento rappresenta, dunque, la regola generale, alla quale possono essere apportate deroghe solo entro limiti rigorosi.

E’ riconosciuta, infatti, la possibilità che gli Stati membri manifestino in modo inequivocabile la volontà di limitare l’applicazione della parità di trattamento3. Tuttavia, a conclusione del proprio percorso argomentativo, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, ha ricordato che la Repubblica italiana non si è avvalsa in alcun modo della facoltà di limitare la parità di trattamento: ragione per cui non ha ritenuto compatibile con il diritto dell’unione l’art. 1 co 125 L. n.190/2014 che, in mancanza di una motivata riduzione di tale principio ha circoscritto il riconoscimento dell’incentivo alla natalità soltanto agli extracomunitari titolari di un permesso di soggiorno di lunga durata.

6. La sentenza della Corte Costituzionale (Corte Cost. 11.1.2022 n° 54) 

La Corte Costituzionale, con la sentenza in commento, resa a seguito della decisione della CGUE, dopo aver esaminato anche le modifiche normative nel frattempo intervenute in materia (assegno unico universale), ritenendole ratione temporis irrilevanti rispetto alla questione affrontata, ha ribadito l’impostazione estensiva del principio di parità di trattamento, desumibile dalle fonti eurounitarie richiamate, ed ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma sottoposta al suo vaglio. 

E’ stato ribadito che la direttiva 2011/98 UE persegue l’obiettivo di «garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri», nella prospettiva di «una politica di integrazione più incisiva» (considerando n. 2), e di «ridurre la disparità di diritti tra i cittadini dell’Unione e i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro» (considerando n. 19).” 

La Corte ha aggiunto che “ai cittadini di Paesi terzi che già «contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte», la direttiva attribuisce «un insieme di diritti» e impone agli Stati membri di salvaguardarli, nell’organizzare i rispettivi sistemi di sicurezza sociale nella maniera che essi reputano più appropriata; che in coerenza con tali finalità si devono interpretare anche le prescrizioni che l’art. 12 della direttiva detta per «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002» (art. 3, paragrafo 1, lettera b) e per «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale» (art. 3, paragrafo 1, lettera c); che, infine, a questi lavoratori l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva riconosce «lo stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano» per quel che concerne i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004” .

A tale premessa è conseguita l’inevitabile conclusione secondo cui “la parità di trattamento non è, dunque, circoscritta ai titolari di un permesso unico di lavoro, ma è riconosciuta anche in favore dei titolari di un permesso di soggiorno per fini diversi dall’attività lavorativa che siano autorizzati a lavorare nello Stato membro ospitante, affermazione questa già formulata dalla CGUE che, come sopra ricordato, ha riconosciuto il diritto alla parità di trattamento nei settori disciplinati dal regolamento (CE) n. 883/2004 che si applica – per quel che in questa sede rileva – alle «prestazioni di maternità e di paternità assimilate» (art. 3, paragrafo 1, lettera b) e alle «prestazioni familiari» (art. 3, paragrafo 1, lettera j), che l’art. 1, lettera z), identifica in tutte quelle in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, con la sola esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione4.

7. Conclusione: rilevanza del dialogo fra le Corti nella riaffermazione del principio generale e diffuso della parità di trattamento fra cittadini e stranieri.

Un aspetto della vicenda di peculiare rilievo è quello che riguarda il dialogo fra le Corti che hanno trovato una valida occasione per esprimersi, in totale consonanza, sugli aspetti discriminatori della vicenda e sulla necessità di interpretare il principio di parità di trattamento con approccio estensivo.

Dopo un primo intervento, a ridosso della pronuncia della CGUE, che ha parlato di pacificazione fra Corte di Giustizia e Corte di Cassazione5, alcuni giuristi si sono chiesti se, a seguito della (inevitabile) conclusione alla quale è giunta la Corte Costituzionale, la risposta resa dalla Corte di Giustizia (con tempi inevitabilmente dilatati per la soluzione della controversia), poteva essere fornita anche dai giudici nazionali, come era già avvenuto in passato in relazione alla medesima materia: in particolare è stato osservato che – visto che la Corte costituzionale ha confermato il principio secondo il quale alle norme delle direttive invocate «deve riconoscersi effetto diretto nella parte in cui prescrivono l’obbligo di parità di trattamento tra le categorie di cittadini di paesi terzi individuate dalle medesime direttive e i cittadini dello Stato membro in cui costoro soggiornano» esprimendo un principio dal carattere chiaro, preciso e incondizionato – la Corte di Cassazione avrebbe dovuto disapplicare le disposizioni non conformi ad esso, come era già stato deciso dai giudici di merito6

E’ stato affermato, infatti, che “la Corte Costituzionale ha ribadito che il compito della rimozione degli effetti discriminatori compete al giudice nazionale ed ha ricordato, in proposito, una sentenza della Corte di giustizia, Stollwitzer,secondo cui l’eliminazione della discriminazione deve essere tempestivamente assicurata mediante il riconoscimento ai soggetti discriminati dei vantaggi concessi alle persone della categoria privilegiata”7: in buona sostanza il riconoscimento di un “effetto diretto” alle norme eurounitarie invocate sembrerebbe postulare la conclusione che la Corte di Cassazione poteva autonomamente decidere nel senso della disapplicazione, così come avevano più agilmente provveduto i giudici di merito.

Ora, a parere di chi scrive, premesso che per la decisione sul sospetto di illegittimità costituzionale, la Corte Costituzionale non poteva esimersi dall’instaurare un dialogo con la Corte di Giustizia in ragione dell’impalcatura eurounitaria che governa le questioni di diritto da risolvere, alla luce dei precedenti arresti della stessa Corte (in primis Corte Cost. 14 dicembre 2017 n.269)8, può forse convenirsi con l’osservazione sopra sintetizzata, funzionale ad una soluzione più rapida, e quindi più tutelante, dei soggetti che hanno subito la lesione. 

Tuttavia, al di là delle differenti opinioni, ora che il “cerchio giurisdizionale” si è chiuso, non può negarsi che la tutela multilevel, ha consentito, nel caso in esame, di rendere “più forte” la decisione ed i principi fondamentali ad essa sottesi, quali la parità di trattamento fra cittadini e stranieri in materia di assistenza e sicurezza sociale, che non potranno più essere messi in discussione, se non attraverso limiti normativi compatibili con la direttiva.

E, non è inutile sottolineare che la Corte Costituzionale – ed ancor prima la Corte di Giustizia – nella valutazione delle questioni loro sottoposte hanno confermato l’inquadramento dei giudici di merito con riferimento al principio generale di “non discriminazione” che, nella materia in esame, riposa sulla Carta dei Diritti (art. 34) e sulla direttiva 2011/98/UE la quale, nella ricostruzione del quadro normativo, riveste un ruolo cruciale.

E’ auspicabile che la strada intrapresa con l’estensione di un principio di civiltà giuridica costituisca “un apripista” per la realizzazione della parità di trattamento fra cittadini e stranieri legalmente soggiornati (che contribuiscono ampiamente alla costituzione delle provviste economiche della nostra previdenza sociale) anche negli altri settori della vita del paese, per una generale realizzazione della loro integrazione nella nostra società: ciò sia al fine di realizzare quella pacificazione sociale di cui abbiamo tutti molto bisogno, soprattutto in “tempi di guerra”, sia al fine di costruire una società in cui ogni germoglio di discriminazione venga eliminato prima che radichi piante infestanti e velenose.

  1. Cfr. Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 25 novembre 2020, nella causa C-302/19, punto 23); https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX:62019CJ0302  
  2. cfr. ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia, Corte Cost 30 luglio 2020 n.182 in https://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/servizi_online.page
  3. CGUE, sentenza 25 novembre 2020, nella causa C-302/19, Istituto nazionale della previdenza sociale, punto 27 https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=234325&pageIndex=0&doclang=IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=15765800; e CGUE 21 giugno 2017, nella causa C-449/16, Kerly Del Rosario Martinez Silva, punto 29) in https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=192044&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=82430 
  4. cfr. Corte Cost 11 gennaio 2022 n. 54 par. 9.1. e 9.2 in https://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/servizi_online.page
  5. Amelia Torrice, Siglata la pace tra Corte di giustizia e Corte costituzionale sul difficile terreno della sicurezza sociale, in Giustizia Insieme, 9 novembre 2021. https://www.giustiziainsieme.it/it/news/93-main/diritto-ed-economia/2017-siglata-la-pace-tra-corte-di-giustizia-e-corte-costituzionale-sul-difficile-terreno-della-sicurezza-sociale-di-amelia-torrice 
  6. Bruno Nascinbene ed Ilaria Anro’, Primato del diritto dell’Unione europea e disapplicazione. Un confronto fra Corte costituzionale, Corte di Cassazione e Corte di giustizia in materia di sicurezza sociale, in Giustizia Insieme 31.3.2022. https://www.giustiziainsieme.it/en/diritto-ue/2269-primato-del-diritto-dell-unione-europea-e-disapplicazione-un-confronto-fra-corte-costituzionale-corte-di-cassazione-e-corte-di-giustizia-in-materia-di-sicurezza-sociale?rCH=2 
  7. Il riferimento è allo stesso contributo sopra richiamato.
  8. https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2017:269