Reddito di cittadinanza: rinviato il requisito dei 10 anni di residenza alla Corte di Giustizia UE. Facciamo il punto.

Il Tribunale di Napoli, nell’ambito di un procedimento penale per il reato di false dichiarazioni dei requisiti per accedere al reddito di cittadinanza, ha rinviato la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ritenendo il requisito dei 10 anni in contrasto con il diritto UE.

Sono ormai due le alte Corti investite dalla questione di legittimità del requisito di lungo -residenza per poter accedere al reddito di cittadinanza. Cogliamo l’occasione per fare il punto della situazione.

RINVIO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE

Il rinvio pregiudiziale del Tribunale di Napoli è stato deciso nell’ambito di una richiesta di rinvio a giudizio per il reato di cui all’art. 7 d.l. 4/2019, contestato a una richiedente che aveva erroneamente dichiarato  di avere il requisito di 10 anni di residenza in Italia. Il Giudice ha ritenuto che la norma incriminatrice, letta in combinato disposto con l’art. 2 co. 1 lett. a) dello stesso d.l. 4 (che prevede appunto detto  requisito) presenti  profili di contrasto con diverse norme dell’Unione Europea poste a tutela dei cittadini UE ed extra UE.

Il provvedimento non indica quale sia il titolo di soggiorno della richiedente, né se sia cittadina UE o extra UE (il che potrebbe porre problemi di completezza e ammissibilità del quesito) ma il giudice ritiene evidentemente che il “requisito della lungo residenza per accedere a uno strumento assistenziale utile ad assicurare un livello minimo di sussistenza“, contrasti sia con la direttiva lungo-soggiornanti (art. 11 par. 1.d dir. 2003/109) sia con la direttiva protezione internazionale (art. 29 dir. 2011/95) sia con gli artt. 18 e 45 del TUE, con il Regolamento 492/2011 e infine con gli artt. 34 della Carta dei diritti fondamentali UE e 31 della Carta Sociale del Consiglio d’Europa.

Posto tale possibile contrasto, il giudice ha ritenuto che l’interpretazione del diritto dell’Unione sia rilevante ai fini della decisione in quanto “la disapplicazione del disposizione che prevede la decennalità della residenza per l’accesso al RDC determinerebbe il venir meno del presupposto di fatto che connota la rilevanza penale della dichiarazione.”

Il rinvio sembrerebbe dunque volto a una sorta di “abolitio criminis” con applicazione del principio di retroattività favorevole della norma penale.

RINVIO ALLA CORTE COSTITUZIONALE

Come già segnalato, la Corte d’Appello di Milano ha invece ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità del requisito di 10 anni di residenza.

Pur riconoscendo che la misura del RDC non possa essere collocata all’interno del c.d. “nucleo essenziale di diritti”,  la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto, che il requisito in esame debba essere vagliato alla luce del vincolo di “ragionevole correlabilità” e ha concluso per la irragionevolezza del requisito: sia perché troppo esclusivo (“la sola residenza non può integrare di per sé un criterio affidabile che possa attestare un effettivo collegamento con lo stato che eroga la provvidenza”), sia perché sproporzionato, sia perché indirettamente discriminatorio in danno  dei cittadini stranieri e in particolare dei cittadini dell’Unione che restano pregiudicati nel loro diritto alla libera circolazione.

L’eccezione di incostituzionalità fa dunque riferimento sia a parametri che riguardano la generalità degli stranieri e che dunque possono influire sugli altri procedimenti in corso in vari Tribunali d’Italia  (art. 3, 11 Cost, art. 117 Cost. in relazione agli artt. 21 e 34 CDFUE) sia a parametri specifici della vicenda esaminata, ove attori erano cittadini UE (direttiva 2004/38 e Regolamento 492/11). Tenendo quindi conto che l’esito del giudizio potrebbe riguardare i soli cittadini UE, sarebbe dunque logico che gli altri procedimenti (che riguardano rifugiati e lungo soggiornanti) non si arrestassero in attesa del Giudizio della Corte.

RILEVANZA PENALE

Sotto il profilo penale, si ricorda che la legge ha previsto un reato a dolo specifico all’art. 7 co. 1 d.l. 4/2019, il quale stabilisce che: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente i beneficio di cui all’art. 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni.”

Ad oggi, per  quanto noto, le numerose indagini di cui riferisce periodicamente la stampa (che ingiustamente accomuna i richiedenti privi dei 10 anni ai “furbetti del RDC”  che occultano beni e redditi)  si sono sempre concluse con provvedimenti di archiviazione o con sentenze di non luogo a procedere. Il Tribunale di Asti con sentenza del 29 aprile 2022, ha rilevato la “palese assenza dell’elemento soggettivo (oltrechè dell’offensività della condotta ascritta all’imputata.”

Il GUP ha cioè ritenuto insussistente l’elemento del dolo e inoffensiva la condotta perché l’imputata (che al momento della domanda aveva da poco ottenuto lo status di rifugiata in Italia) aveva prodotto la documentazione richiesta per la presentazione della domanda di RDC, tra cui figurava il suo permesso di soggiorno, “dal quale risultava in modo inequivoco la situazione personale, tra cui il periodo di residenza in Italia”: una situazione, questa, comune a quasi tutte le domande di stranieri ( che allegano o almeno rammostrano sempre  il permesso di soggiorno, al quale peraltro  l’INPS può accedere tramite la banca dati a sua disposizione) e che pertanto dovrebbe indurre a concludere nello stesso senso del Tribunale di Asti.

DENUNCIA ALLA COMMISSIONE UE

ASGI insieme alle associazioni NAGA e APN, aveva presentato una denuncia alla Commissione UE chiedendo che Bruxelles aprisse una procedura di infrazione contro l’Italia in relazione al requisito di 10 anni di residenza. Gli uffici dell’ EU PILOT in questi mesi hanno chiesto notizie al Governo italiano sapendo che era in corso una discussione in Parlamento sulla modifica dei requisiti di legge.

Il Governo ha infatti risposto dichiarando di avere in corso la revisione della disciplina, ivi compreso la riduzione del requisito decennale. Le modifiche proposte dalla “Commissione Saraceno” (ivi compresa la proposta di ridurre il requisito a 2 o 5 anni) sarebbero infatti dovute confluire nella legge di Bilancio 2022 (l. 234/2021) ma ciò non è avvenuto.

Le associazioni hanno dunque inviato, lo scorso 24 giugno, una nota alla Commissione per chiedere “di dar seguito alla procedura di infrazione assumendo a tal fine tutti i necessari provvedimenti.”

RESIDENZA DI FATTO

Nonostante la complessità della situazione, qualcosa trova soluzione. Come già segnalato, a seguito dell’intervento del servizio antidiscriminazione nell’ambito del progetto LAW, diversi Comuni italiani hanno rettificato le informazioni all’INPS comunicando gli anni di residenza effettiva. L’Istituto ha poi provveduto a ripristinare la prestazione, dopo aver annullato in via di autotutela il proprio provvedimento di revoca.