La corte di appello di Napoli accerta la responsabilità penale del comandante della ASSO 28

di Armando Maria De Nicola

Disponibili le motivazioni della sentenza del 10 novembre 2022 con cui la quale la Corte ha confermato la condanna del comandante della nave privata Asso 28 per aver ricondotto in Libia oltre cento persone soccorse in mare

Si era già discusso  del caso della ASSO 28 della compagnia Augusta offshore e della condanna inflitta al comandante dell’imbarcazione, nei cui confronti il Tribunale di Napoli aveva accertato la responsabilità penale in merito ai reati previsti e puniti dagli articoli 591 del codice penale (Abbandono di persone minori o incapaci) e 1155 del codice della navigazione (Sbarco e abbandono arbitrario di persone). 

Recentemente, anche la Corte di Appello di Napoli ha depositato le motivazioni relative alla sentenza del 10 novembre 2022 con cui si è pronunciata a seguito dell’appello presentato dall’imputato nell’originario procedimento.

Il comandante aveva lamentato, nel proprio atto di impugnazione, in primo luogo l’incompetenza territoriale dovendosi ritenere competente il tribunale di Ragusa; tra le altre cose, veniva anche censurata l’assenza di responsabilità penale per avere lo stesso assolto ai propri obblighi internazionali ai sensi delle Convenzioni SOLAS e SAR del 28.6.2018. Sulla base di tanto egli avrebbe dovuto rivolgersi alle sole Autorità libiche, essendo in quella zona le uniche deputate al soccorso ed all’attività di coordinamento, di ricerca e di indicazione, sul proprio territorio, di un luogo sicuro di sbarco, trovandosi il natante in zona SAR libica. 

Tra le altre rimostranze  presentate dal ricorrente, si deduceva anche l’illogicità della motivazione del giudice di primo grado, nella parte in cui si faceva riferimento al Rapporto dell’ONU sulle condizioni di detenzione dei migranti in Libia. La difesa dell’imputato censurava la decisione del Tribunale in quanto non avrebbe considerato la mancata conoscenza, da parte del comandante, circa il “sistema libico di accoglienza”, soprattutto se rapportata alla consapevolezza dell’esistenza -nella zona di soccorso- di una zona di operatività delle autorità libiche in tema di salvataggio.

In effetti, ciò che l’atto di appello ha sottolineato è stata, in particolare, l’assenza di coscienza del comandante del natante di un rischio per l’incolumità dei naufraghi soccorsi in mare, in caso di rientro in Libia.

La Corte di Appello di Napoli, innanzitutto ha fissato la propria competenza, in quanto, prima dell’Approdo a Pozzallo, una denuncia di evento straordinario era già stata fatta, dal comandante, alle autorità maltesi ed, inoltre, richiamando l’art. 1240 del codice della navigazione a mente del quale “competente il luogo d’iscrizione della nave o dell’aeromobile”, di conseguenza che, anche i reati connessi al primo sarebbero (ai sensi dell’Art. 9 del codice di procedura penale) di competenza della Procura che per prima aveva iscritto la notizia di reato: nella fattispecie la procura partenopea che aveva già ricevuto la prima denuncia di reato.

La Corte ha poi rimarcato alcuni fondamentali principi in tema di soccorso in mare confermando nel merito la pronuncia di primo grado, così confermando la responsabilità del comandante.  Questi, infatti, per il giudice d’appello, avrebbe avuto non solo l’obbligo di valutare le condizioni di vulnerabilità di donne e bambini presenti a bordo ma anche di verificare la volontà degli stessi di presentare eventuali richieste d’asilo ed, in virtù della “posizione di garanzia” legata al proprio ruolo, condurle in un porto sicuro. 

In tal modo l’ufficiale non avrebbe neppure adempiuto al proprio obbligo di tutela della salute fisica dei migranti avendo violato, con l’affidamento alle autorità libiche, i propri obblighi di custodia. 

Nel provvedimento, inoltre, risulta di grande interesse anche il riferimento alla mancata identificazione del sedicente funzionario libico che avrebbe “assicurato” il trasbordo sul territorio di sbarco, cui il comandante si sarebbe affidato senza contattare direttamente né le l’IRCC di Tripoli per verificare l’invio, né IMRCC di Roma, tantomeno L’ambasciata italiana a Tripoli, autorità tutte contattate solo ad operazioni terminate. In effetti, né vi era stata identificazione, tantomeno sarebbe stato prospettabile un ordine da parte di un superiore gerarchico, per la Corte, non essendo lo stesso sedicente funzionario immaginabile come tale, trovandosi l’imbarcazione italiana in acque internazionali, pertanto non soggetta alla giurisdizione di altro stato.  

La decisione della Corte si profila di grande interesse, a parere di chi scrive, in un momento storico in cui il soccorso in alto mare viene stigmatizzato e molto spesso colpevolizzato. 

In effetti, sebbene i limiti edittali confermati anche in fase di appello (la condanna in primo grado era ad anni uno di reclusione) siano molto bassi, viene sottolineato il carattere cogente dei vincoli internazionali di salvataggio in alto mare ed il conseguente obbligo di sbarco in un luogo sicuro dei soggetti soccorsi. 

Peraltro, la pronuncia in commento pone anche un altro passaggio molto interessante che riguarda l’obbligo di custodia del comandante di verificare anche la volontà potenziale di domandare asilo, dei soggetti soccorsi, sotto tale aspetto rimarcando la centralità ed il carattere di ius cogens della Convenzione di Ginevra anche per di chi opera soccorso in alto mare.